Molto dettagliata, per quanto venata di retorica, è invece una memoria di quanto avvenne redatta nel 1884 sulla base di testimonianze orali e autenticata dal presidente della Società dei Reduci delle Patrie Battaglie di Città di Castello:
“Verso le 10 antimeridiane gl’insorti riuniti in S. Sepolcro ed armati con fucili da caccia, unitamente ad alcuni popolani di quella Città, precedettero il Corpo d’Armata […] marciando alla volta di Città di Castello e precisamente verso la porta S. Giacomo situata a Tramontana. Rosa Duranti, giovane ardente, nel cui petto batteva un cuore veramente italiano, non curando il pericolo cui esponevasi, seguiva in una carrozza gl’insorti tenendo in mano il segnacolo della libertà, il Tricolore Vessillo […]. I componenti del drappello scorgendo, nell’avvicinarsi, la porta serrata, volsero ogni opera loro ad atterrarla; e coadiuvati anche da qualche cittadino all’interno, riuscirono con leve a farla cadere. Allora entrarono in città, ma giunti presso al Convento delle Cappuccine, gli sgherri papali che erano in agguato presso la piazza dei Fucci, fecero una scarica che crivellò la gloriosa bandiera. La giovane coraggiosa che la portava, non si sgomentò per questo; ché anzi con nobile sdegno rispose alle palle dei fuggenti e tremebondi sbirri col seguente motto: ‘Vigliacchi, sono degni servi dl loro padrone!’. Quindi, così ella come gl’insorti s’inoltrarono con la Bandiera spiegata precedendo l’Esercito che li avea raggiunti. Ma arrivati verso la piazza S. Francesco, furono fatti segno ad un’altra scarica. L’Esercito e gl’insorti allora avanzarono di corsa e giunti in Piazza Vitelli vennero accolti a fucilate dai papalini che si erano ritirati nel palazzo del Governatore, ove poi furono fatti prigionieri. La Bandiera così trapanata dal piombo papale fu subito issata nella piazza principale e in seguito gelosamente conservata”.
Tracce degli avvenimenti di quel pomeriggio si trovano anche nel Diario di Cipriano Corsi:
“Alle ore una dopo mezzogiorno i carabinieri si sono messi in parata, e di fatti oltre i volontari, in tre quarti d’ora sono venuti i soldati piemontesi, che da otto giorni erano al Borgo e a Monterchi, e i carabinieri hanno sparato, ma è convenuto aprire le Porte. Sono entrati e arrivati in Piazza di sopra hanno sparato di nuovo da una parte e dall’altra, ma i carabinieri sonosi dati alla fuga, ma siccome sono stati subito inseguiti, così ne hanno presi 45 e fatti prigionieri e li hanno messi alla larga. […] I volontari venuti con loro mostrano gran feste. I soldati saranno su i cinquemila, hanno proclamato subito il Governo Piemontese, hanno gettato a terra lo stemma pontificio e questo nel Comune è stato gettato a terra da volontari, e caduto non essendosi rotto, lo hanno rotto a forza. […]. Nel momento che alla Porta di San Giacomo incominciavano a sparare, Ercole Castori, che abita presso la porta, sentendo le prime scariche disse: Ora sono arrivato alle mie contentezze, e nel dire queste parole cadde in terra morto colpito da apoplessia”.
Ci è giunto un altro diario dell’epoca, redatto da Tommaso Rossi. Vi scrisse che porta San Giacomo fu “facilmente aperta senza atterrarla con l’opera di alcuni partitanti della Rivoluzione che stavano attendendo, ed in vedetta nell’orto ivi prossimo del Celestini”.
Testi di parte pontificia fecero esplicito riferimento a “corpi franchi”, cioè di volontari, che precedettero le truppe piemontesi quando penetrarono nello Stato Pontificio per Città di Castello. Giuseppe Amicizia avrebbe scritto che “le milizie liberatrici” erano “seguite da un gruppo di patrioti entusiasti provenienti dalla vicina ospitale Toscana e specie da Sansepolcro”, tra cui Rosa Duranti; e confermò i dettagli delle scariche di fucileria scaricate addosso a loro e alla bandiera che sventolavano.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).