Rosa Duranti, al seguito dei patrioti che entrano in città da porta San Giacomo, sventola la bandiera tricolore sforacchiata da colpi di fucile. Disegno di Ubaldo Mariucci, detto Baldino.
La bandiera sventolata da Rosa Duranti: sono visibili le tracce dei colpi di moschetto tirati dai gendarmi pontifici.
Messaggio di re Vittorio Emanuele II ai soldati in procinto di invadere Umbria e Marche.

L’11 settembre 1860

Il 10 settembre il gen. Schmid inviava due dispacci al comandante in capo Lamoricière, assicurando che a Città di Castello tutto era tranquillo, ma giravano molte chiacchiere (“grands bruits”).
Il proclama di Vittorio Emanuele II ai suoi soldati preannunciava invece lo scontro decisivo: “Voi entrate nelle Marche e nell’Umbria per restaurare l’ordine civile nelle desolate Città, e per dare ai Popoli la libertà di esprimere i proprii voti”. Alle truppe piemontesi, che stavano entrando nel territorio pontificio per “liberarlo dalle straniere compagnie di ventura”, il re affidò una missione di alta civiltà: “Voi insegnerete coll’esempio il perdono delle offese, e la tolleranza cristiana a chi stoltamente paragonò all’islamismo lo amore alla Patria Italiana”.
Il clima di nervosa attesa che si respirava in città è testimoniato dalle parole del Diario di Cipriano Corsi:
“A dì 11. […] I volontari sono venuti a San Giustino, hanno messo in ostaggio i carabinieri e finanzieri, hanno mutato Governo ed hanno fatto una nuova magistratura, così hanno fatto a Citerna. Le porte della città sono chiuse e tutti i carabinieri che saranno una settantina in tutto sono in arme e a picchetti. Nessuno può entrare e nessuno sortire dalla città. Tutti stanno con gran timore. […] Sono le dieci e si spargono voci che vengono da tutte le parti, ma non si sa chi”.
Tra l’una e le due del pomeriggio di quel martedì, un folto gruppo di volontari tifernati, la Brigata Granatieri di Sardegna, una batteria di artiglieria e il 16° battaglione di bersaglieri, provenienti da Sansepolcro e comandati dal gen. Carlo Camerana, raggiunsero Città di Castello e si appostarono presso porta San Giacomo, difesa da 78 carabinieri pontifici. Le fonti non permettono di ricostruire con certezza l’esatta dinamica della conquista della città; se cioè i primi ad introdurvisi siano stati gli insorti o i piemontesi. Si tratta di un dettaglio dal forte valore simbolico, ma comunque di scarso significato militare: la resa della guarnigione pontificia tifernate era scontata, dato l’enorme divario delle forze che si scontrarono quel pomeriggio.
Il rapporto ufficiale dello stato maggiore piemontese è assai sintetico. Scrisse il gen. Morozzo Della Rocca: “Le porte erano chiuse, ed i nostri venivano accolti a fucilate da 70 circa carabinieri pontifici […]. Tale resistenza fu tosto superata; le porte furono dischiuse per opera anche degli abitanti […]”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).