Il 10 settembre il gen. Schmid inviava due dispacci al comandante in capo Lamoricière, assicurando che a Città di Castello tutto era tranquillo, ma giravano molte chiacchiere (“grands bruits”).
Il proclama di Vittorio Emanuele II ai suoi soldati preannunciava invece lo scontro decisivo: “Voi entrate nelle Marche e nell’Umbria per restaurare l’ordine civile nelle desolate Città, e per dare ai Popoli la libertà di esprimere i proprii voti”. Alle truppe piemontesi, che stavano entrando nel territorio pontificio per “liberarlo dalle straniere compagnie di ventura”, il re affidò una missione di alta civiltà: “Voi insegnerete coll’esempio il perdono delle offese, e la tolleranza cristiana a chi stoltamente paragonò all’islamismo lo amore alla Patria Italiana”.
Il clima di nervosa attesa che si respirava in città è testimoniato dalle parole del Diario di Cipriano Corsi:
“A dì 11. […] I volontari sono venuti a San Giustino, hanno messo in ostaggio i carabinieri e finanzieri, hanno mutato Governo ed hanno fatto una nuova magistratura, così hanno fatto a Citerna. Le porte della città sono chiuse e tutti i carabinieri che saranno una settantina in tutto sono in arme e a picchetti. Nessuno può entrare e nessuno sortire dalla città. Tutti stanno con gran timore. […] Sono le dieci e si spargono voci che vengono da tutte le parti, ma non si sa chi”.
Tra l’una e le due del pomeriggio di quel martedì, un folto gruppo di volontari tifernati, la Brigata Granatieri di Sardegna, una batteria di artiglieria e il 16° battaglione di bersaglieri, provenienti da Sansepolcro e comandati dal gen. Carlo Camerana, raggiunsero Città di Castello e si appostarono presso porta San Giacomo, difesa da 78 carabinieri pontifici. Le fonti non permettono di ricostruire con certezza l’esatta dinamica della conquista della città; se cioè i primi ad introdurvisi siano stati gli insorti o i piemontesi. Si tratta di un dettaglio dal forte valore simbolico, ma comunque di scarso significato militare: la resa della guarnigione pontificia tifernate era scontata, dato l’enorme divario delle forze che si scontrarono quel pomeriggio.
Il rapporto ufficiale dello stato maggiore piemontese è assai sintetico. Scrisse il gen. Morozzo Della Rocca: “Le porte erano chiuse, ed i nostri venivano accolti a fucilate da 70 circa carabinieri pontifici […]. Tale resistenza fu tosto superata; le porte furono dischiuse per opera anche degli abitanti […]”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).