Uno zuavo pontificio e Uuniformi di militari dello Stato della Chiesa.

L’ultima repressione

A rinvigorire le speranze degli umbri di una prossima liberazione giungevano notizie esaltanti dal Meridione italiano, dove si stava sgretolando il regno borbonico. Consolidato il suo corpo di spedizione con nuovi consistenti afflussi di volontari e di armi, Giuseppe Garibaldi completò a fine luglio la conquista della Sicilia, il 19 agosto sbarcò in Calabria e il 7 settembre entrò a Napoli da trionfatore.
A quel punto l’esercito piemontese si mosse per invadere il territorio pontificio. Il generale Manfredo Fanti aveva il compito di guidare una spedizione costituita da due corpi d’armata: il quarto, comandato dal gen. Enrico Cialdini, avrebbe invaso le Marche per puntare verso Ancona; il quinto, comandato dal gen. Enrico Morozzo Della Rocca, sarebbe entrato nello Stato pontificio attraverso l’Alta Valle del Tevere, per poi avanzare in direzione di Perugia e Foligno. Questo corpo d’armata già stazionava nell’Aretino, con punte avanzate ad Anghiari, Sansepolcro e Monterchi.
Ormai gli eventi stavano precipitando. Il comandante in capo dell’esercito pontificio, Lamoricière, il 7 settembre proclamò da Spoleto lo stato d’assedio nell’intera provincia. L’autorità militare assunse le attribuzioni governative e di polizia e minacciò gravissime punizioni, fino alla pena di morte, a danno di quanti avrebbero osato prendere le armi contro il legittimo sovrano, inalberare il tricolore, incitare i soldati alla diserzione, turbare l’ordine pubblico, tenere corrispondenza con sovversivi, dare ospitalità ad insorti e disertori. Inoltre vietò severamente “la fabbrica, l’occultamento, raccolta e distribuzioni di emblemi e segni sediziosi, bandiere, fettuccie, coccarde”, “la diffusione di novelle allarmanti false, e l’eccitazione alla rivolta mediante discorsi e scritti come anche le grida e clamori sediziosi”, “gli attruppamenti di giorno e di notte tendenti a turbare la tranquillità pubblica”.
Di come montasse la tensione a Città di Castello sono prove le annotazioni nel Diario del canonico Cipriano Corsi:
“A dì 9. In questa notte i gendarmi si sono portati nella casa di Carlo Tacconi bastaro per carcerarlo, ma già era riuscito fuggire. […] In questa sera i carabinieri si son fatti vedere in grandi pattuglie per la città come si tramasse qualche cosa. In questa notte, cioè dal 9 al 10 i carabinieri hanno arrestato Geremia Guerrieri […] detto ‘il Fabbrino’, e Cherubini […] ed altri. Molti sono fuggiti.
A dì 10. Appena sentito l’arresto fatto si è fatto sentire un allarme segreto, ed hanno seguitato a partire gli altri. È venuto un Editto del gen. Lamorcière che ha messo in stato d’assedio la Provincia di Perugia. In questa sera i carabinieri hanno preso le chiavi delle Porte della città, si dice che verrà più forza”.
Nella notte dal 9 al 10 settembre i gendarmi pontifici arrestarono anche Agostino Bartolucci, a Città di Castello, e Filottete Corbucci, a Perugia. Tra i tanti che riuscirono a fuggire vi fu Francesco Milanesi. Avrebbero testimoniato altri patrioti:
“[Milanesi] nella notte del 9 settembre veniva dal Governo Pontificio ricercato e già buon numero di Gendarmi circondarono la sua abitazione, ove stettero fino all’alba del giorno veniente a battere e minacciare di atterramento la porta della sua casa, ma esso non volendo darsi prigione da per sé, senza punto scomporsi attese fino allo spuntar del giorno il momento propizio per fuggire nella vicina Toscana e così salvarsi dal carcere”.
Il comandante militare di Perugia informò con un dispaccio il gen. Lamoricière della fuga oltre il confine di 300 giovani tifernati, cifra certamente esagerata. Temeva che in Toscana si sarebbero armati. Sottovalutò però la minaccia piemontese: credeva che a Sansepolcro non vi fossero che due battaglioni di loro granatieri.
Sull’espatrio clandestino di tifernati in quel frangente storico c’è anche la testimonianza di alcuni patrioti:
“Erano già alcuni giorni che il sole nel suo tramonto vedeva brulicare per nascosti sentieri giovani e vecchi dall’aria guerresca e dal passo fermo e risoluto che emigravano nella vicina Toscana facendo capo chi a Monterchi, chi a Borgo San Sepolcro, colla ferma intenzione di precedere il valoroso Esercito Italiano, il quale già si apprestava a sconfinare […] cercavano per ogni dove vecchi archibugi nella speranza di misurarsi con i sostenitori del più esacrato Governo”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).