Il territorio di confine tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana nell'Alta Valle del Tevere.
Ritratto fotografico di Vittorio Emanuele II.

Bruto e il comitato segreto di Città di Castello

Il fiduciario del comitato di Città di Castello aveva lo pseudonimo di Bruto. Godeva della grande stima dei vertici del movimento insurrezionale, perché molto attivo e inoltre “pieno di entusiasmo e in pari tempo di assennata prudenza”. Spettava a lui, oltre ad organizzare i patrioti tifernati, costituire “l’anello di congiunzione dell’Umbria colla vicina Toscana”. In un messaggio inviato all’inizio di luglio 1860, riferì di uno spirito pubblico “sempre animatissimo” in città, con una gioventù “oltremodo fiduciosa”. Lamentò la mancanza di armi e denari e stimolò i vertici dell’organizzazione a inviare continuamente manifesti, programmi e proclami per contribuire a tenere sempre desto l’entusiasmo dei giovani. Raccomandò che giungessero da Firenze indicazioni operative pronte e chiare e, soprattutto, condivise e mai avventate. Invitò, per non “sbagliare e compromettere la causa”, a tenere bene a mente quanto successo a Perugia il 20 giugno del 1859.
Lo spirito unitario invocato dal comitato tifernate è espresso dalle seguenti affermazioni di Bruto, che, pur affidandosi in tutto al re e a Cavour, esaltava Garibaldi, a quell’epoca impegnato nella vittoriosa offensiva per completare la conquista della Sicilia: “Noi si vuole andare uniti e compatti e sempre d’intesa tacita o espressa con Governo del Re e l’Eroe di Palermo. Noi crediamo necessario di andare uniti e compatti e sempre d’intesa, o tacita o espressa, di chi ha in mano la somma delle cose. Il non aver fiducia di Cavour e di Farini sarebbe empia cosa perché hanno dato troppe prove di essere Italiani veri e capaci […]”. E ancora: “[…] non siamo curiosi di correre, ma invece vogliamo che la cosa sia fatta a tempo onde riesca sicura. E chi ci dice che questi giovani frenetici e impazienti, quantunque sieno pieni di amor patrio, pienissimi di fede, non venghino maneggiati senza che se n’accorghino dai nostri nemici?”.
Le lettere di Bruto per il Comitato di Perugia venivano recapitate a mano a Teresa Cagnoli e in seguito a Rosa Gennari. Per indicare una consegna immediata dei messaggi si soleva scrivere sulla sopracarta l’espressione “Con la velocità dell’elettrico!”.
Chi si celasse dietro al nome di Bruto non lo sappiamo. Di certo facevano parte del Comitato clandestino di Città di Castello, oltre all’onnipresente Luigi Bufalini, patrioti già usciti allo scoperto negli anni 1848-1849 – come Bernardino Adami, Giuseppe Baldeschi, Vincenzo Celestini, Gaetano Cherubini, Urbano Gualterotti, Geremia Guerrieri, Settimio Lensi, Francesco Milanesi, Marcello Speziali – insieme ad altri il cui impegno per la causa italiana e liberale era più recente: Carlo Carleschi, Antonio Gnoni, Aurelio Mancini, Silvio Palazzeschi, Vincenzo Ricci, Biagio Trivelli. Probabilmente si trovava in quel periodo a Perugia un altro patriota tifernate assai noto alla polizia pontificia, Filottete Corbucci; aveva da poco perso il padre Ludovico – come si è visto figura di spicco del movimento liberale cittadino – assassinato da persona rimasta ignota con colpi di arma da fuoco il 19 novembre 1859 nell’odierna piazza Fanti. Infine membro del Comitato di Città di Castello era senz’altro Giacomo Pieralli, il quale riusciva ad avere accesso ad informazioni riservate di fonte pontificia.
Il timore di Bruto e del comitato tifernate che le frange estreme del movimento patriottico avessero in mente qualche colpo di mano per accelerare i tempi dell’offensiva contro lo Stato pontificio parve prendere corpo di lì a qualche giorno. Giacomo Pieralli ricevette per la via di Monterchi una comunicazione da Firenze, datata 29 luglio: chiedeva di tener “pronti carri, carrette e bestie da soma ed uomini” per un’azione in grande stile che dal confine toscano si sarebbe irradiata verso Perugia. Firmarono il messaggio Antonio Martinati e Giuseppe Dolfi, esponenti dell’ala del movimento vicina ad Agostino Bertani. La cosa destò preoccupazioni sia a Città di Castello che a Perugia, dove si era consapevoli dei dissidi esistenti all’interno del Comitato di Firenze e si vedevano di malocchio interventi militari intempestivi, non appoggiati da Cavour. A complicare le cose, lo stesso Comitato fiorentino, per le differenti impostazioni strategiche che si confrontavano al suo interno, talvolta “lasciava nel buio più desolante i suoi principali rappresentanti nell’Umbria”.
Da allora il Comitato tifernate strinse ancor più il legame con i patrioti perugini. Crebbe la consapevolezza che azioni improvvide e avventate avrebbero potuto avere effetti negativi incalcolabili. Bisognava dunque attendere pazientemente le mosse del re e di Cavour e preparare la mobilitazione popolare per sostenerle.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).