A prescindere dall’episodio particolare dell’ingresso di soldati e patrioti, già alle ore 15 Città di Castello era sotto il pieno controllo dei piemontesi, accolti con grande calore dai tifernati. Il gen. Fanti fece affiggere un manifesto che ribadiva le ragioni dell’invasione: “Bande straniere convenute da ogni parte di Europa sul suolo dell’Umbria e delle Marche vi piantarono lo stendardo mentito di una religione che beffeggiano. Senza patria e senza tetto essi provocano ed insultano le popolazioni onde averne pretesto per padroneggiarle. Un tale martirio deve cessare […]”.
Con un altro manifesto, si presentò alla popolazione il comitato istituito dalle autorità di occupazione per reggere temporaneamente le sorti della città. Lo componevano Giacomo Pieralli, GioBatta Gnoni, Giuseppe Baldeschi, Leovigildo Tommasini Matteucci e Silvio Palazzeschi. Il manifesto lanciò un nobile appello: “Abbandonatevi pure alla gioja dell’acquistata libertà; esultate, pensando, che oggi siete entrati a far parte della gran famiglia Italiana. Non sfoghi di odj, o di vendette, turbin le nostre gioje: mal si avviene a’ popoli liberi quello che hanno usato i Tiranni: i popoli liberi, son generosi; perdonano”.
Non si trattava di un appello dall’esito scontato. I capi patrioti tifernati sapevano che una frangia di oppositori dell’ormai sconfitto regime pontificio avrebbe potuto lasciarsi andare a vendette inconsulte. Ma tale rischio fu evitato con assennate contromisure. Le rivelò Giuseppe Amicizia:
“Un buon nerbo di insorti castellani, con intendimenti punto pacifici, era presso Citerna, anelante di entrare per primo nella città. Ma il generale Fanti, con lodevole accorgimento e per evitare un inutile spargimento di sangue e una rappresaglia non opportuna, fece tenere a bada quel manipolo presso Lerchi. Onde quando essi, gli insorti, pervennero alla porta del Prato, trovarono la città già occupata dalle milizie italiane, i gendarmi fatti prigionieri insieme col governatore e col commissario di polizia”.
Per mantenere l’ordine pubblico nel centro urbano e in campagna, fu posto a capo di una milizia armata di 24 uomini proprio un patriota, Francesco Milanesi. Aveva fatto parte del gruppo di volontari giunto con i piemontesi per liberare la città e si era distinto per impeto e, nel contempo, spirito di equilibrio. Si legge di lui in un profilo scritto da Ettore Cecchini: “Mentre fu tra i primi ad accorrere a S. Domenico per aprire le prigioni e divellere da queste le inferriate, impedì che fosse recato danno alcuno al Capo Inquisitore”. La milizia di Milanesi sarebbe rimasta operativa fino al 12 ottobre, quando subentrarono i carabinieri reali.
Nella serata dell’11 settembre il gen. Camerana prendeva posizione davanti a Città di Castello, mentre il resto del quinto corpo d’armata, con il quartiere generale, raggiungeva Monterchi. L’invasione piemontese dell’Alta Valle del Tevere giunse propizia per i “Cacciatori del Tevere”, che quel giorno occupavano Orvieto: inferiori in uomini e mezzi, avrebbero avuto molto da temere da un’eventuale contrattacco dell’esercito pontificio, che però a quel punto doveva preoccuparsi soprattutto della falla apertasi lungo la valle tiberina.
Il 12 settembre entrò a Città di Castello il resto delle truppe piemontesi. Dell’atmosfera festosa che aleggiava in città parlò nelle sue memorie anche il gen. Morozzo Della Rocca:
“Furono distribuiti [alla popolazione] ogni sorta di rinfreschi che provenivano da un caffè situato nella piazza, sul quale avevano sostituito, nella notte suppongo, all’antica insegna quella di ‘Caffè Generale Della Rocca’. In poche ore organizzarono parecchie feste, un gran ballo nel palazzo municipale per gli ufficiali e per i signori del paese, e un altro nella piazza, dove i soldati ebbero il permesso di mischiarsi al popolo. Chiasso e allegria fino a tarda notte”.
Nello stesso giorno vennero affissi per la città manifesti con il proclama del commissario del re nella Provincia di Perugia, marchese Filippo A. Gualterio:
“[…] assumendo l’esercizio del potere fra Voi, io sono fermo a stabilire il vero ordine, e a fare quanto è in me per riparare ai vostri mali, e posto freno alle parti, non aperto alcun adito alle vendette, godrò prepararvi all’esercizio del solenne diritto del suffragio dal quale dovranno dipendere le sorti vostre. Sono certo che questa generosa Provincia culla di antica civiltà, non si mostrerà inferiore alle sue tradizioni, non dimenticherà l’esempio di moderazione e di sapienza civile, che altre provincie d’Italia le hanno dato”.
Nel frattempo l’avanzata della spedizione piemontese proseguiva spedita. Il gen. Gerbaix De Sonnaz raggiungeva Fratta con la Brigata Granatieri, i bersaglieri, uno squadrone cavalleria e l’artiglieria; mentre le truppe guadavano a piedi il Tevere a Montecastelli – allora non c’era il ponte, ma solo una barca che fungeva da traghetto – un reparto del genio costruiva in 24 ore un ponte provvisorio per permettere il passaggio dei carri.
L’esercito reale sarebbe entrato a Perugia il 14 settembre. Il gen. Schmid, che difendeva il capoluogo con 1.600 soldati, si arrese. Alle ore 6 pomeridiane il commissario Gualterio comunicò a Città di Castello: “In questo momento i nostri entrano nel Forte: Città illuminata, entusiasmo e gioja universale”. Il 17 settembre cadeva Spoleto; il 18 il gen. Cialdini infliggeva la sconfitta decisiva all’esercito pontificio a Castelfidardo; il 29 capitolava Ancona. Quando giunsero le notizie di queste vittorie piemontesi, i tifernati accolsero di buon grado l’invito delle autorità cittadine a esprimere la propria gioia illuminando con torce le loro abitazioni.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).