L’edificio della Gioventù Italiana del Littorio, demolito nel dopoguerra, allora sede della Guardia Nazionale Repubblicana.
Testamento morale di Gabriotti.
Manoscritti di Gabriotti durante i giorni di detenzione.

Smentite, ritrattazioni, reticenze e sospetti

Gli interrogatori per l’uccisione di Gabriotti, svoltisi nel 1946 per la fase istruttoria del processo, videro gli imputati arroccarsi sula linea difensiva già in precedenza delineata da Baldinucci e Manganelli. Biagio Giombini affermò categoricamente che “la fucilazione fu eseguita dalla SS tedesche e comandata da un sottufficiale tedesco”. Un testimone chiave come Remo Cancellieri ritrattò ampiamente quanto confessato l’anno prima: “A rettifica di quanto fu precedentemente dichiarato devo dire che io non fui presente all’esecuzione del Gabriotti e quindi non posso dire chi vi abbia partecipato come componenti il plotone di esecuzione o come servizio d’ordine”. Sostenne di non sapere “se il Gabriotti fu fucilato dai tedeschi o dai militari italiani” e, riguardo a Gambacorta, specificò: “[…] mi disse che non aveva voluto far parte del plotone perché non si sentiva di farlo”. Messo a confronto con Giombini, ribadì di non aver visto praticamente nulla e lo scagionò: “[…] involontariamente, date le condizioni psichiche dopo il mio arresto, ho fatto il tuo nome. Non so come l’abbia fatto”.
Vasco Topini ammise di essere stato presente all’esecuzione, ma “in servizio d’ordine”. Pure Agostino Tavernelli – che aveva chiamato in causa Baccelli, Sanna, Topini e Gambacorta – disse di essere stato impiegato solo come sentinella e di non poter identificare con certezza i componenti del plotone di esecuzione (“io non posso sapere come avvennero le cose”).
Emblematica la ritrattazione di un reo confesso come Giovanni Sanna, che imputò alla prolungata detenzione subita una perdita di memoria tale da fargli dire “cose completamente non vere”. Nel confronto con Topini, dichiarò: “È vero quanto tu dici, abbiamo fatto parte insieme del plotone di servizio di ordine, adesso ricordo bene. Non so come abbia detto il contrario. Evidentemente la lunga detenzione mi ha indebolita la memoria. Io sono un contadino analfabeta e [quando] avevo detto di aver partecipato all’esecuzione volevo riferirmi al servizio di ordine, alla mia presenza sul fatto, e non al plotone di esecuzione. Il giudice che m’ha interrogato non ha capito bene quello che io volevo intendere”.
Anche Piermarino Gambacorta negò nel modo più assoluto “di aver partecipato alla uccisione del povero col. Gabriotti”, dal momento che era impegnato in una sessione speciale di esami alla facoltà veterinaria di agraria di Perugia.
“Nessuno dei militi di Città di Castello osò partecipare alla consumazione del nefando delitto”. Questa la categorica affermazione che si legge nella prima biografia di Gabriotti, redatta nei primi mesi del 1945. Con un’inchiesta già in corso, con esponenti fascisti di spicco e militi della GNR incarcerati e sotto interrogatorio, con altri militi che tra il maggio e il giugno 1944 avevano disertato per raggiungere i partigiani alla macchia, diventando testimoni importanti, e, soprattutto, con una pubblica opinione che chiedeva la verità, esistevano le condizioni per acquisire informazioni certe. Alcuni dei fascisti più implicati, dopo la loro fuga da Città di Castello si trovavano in Italia settentrionale e se ne richiedeva l’arresto perché fossero processati e puniti. La guerra non era ancora finita e forte era l’astio contro quel regime che l’aveva voluta, mettendo il Paese in ginocchio e assoggettandolo a una dura dittatura. Le stesse autorità Alleate apparivano ben poco inclini a mostrare indulgenza verso i fascisti sconfitti. In tale scenario sarebbe stato difficile contraffare la realtà degli eventi, per nascondere il coinvolgimento di qualche tifernate nella fucilazione di Gabriotti.
Il prosieguo dell’inchiesta giudiziaria non aggiunse nulla di nuovo. Eppure si sarebbe tramandata nel tempo una ‘verità parallela’, fondata su voci e su testimonianze mai rese pubbliche, che anche qualche fascista di Città di Castello abbia fatto parte del plotone di esecuzione.
Anch’io ho ripreso il racconto di un uomo, all’epoca dodicenne, che asserì di aver seguito a distanza il plotone di esecuzione, nel quale riconobbe diversi concittadini. Di sei di essi mi dette i nomi. Non volle però assumersi pubblicamente la responsabilità di quanto affermato. Due dei nominativi corrispondono in effetti a militi che ammisero al processo di essere stati presenti all’esecuzione, ma in servizio d’ordine attorno al greto dello Scatorbia. Come si è visto, secondo quanto testimoniato da alcuni fascisti, diversi militi di Città di Castello facevano parte della compagnia della milizia che si incamminò lungo la strada di Belvedere, con Gabriotti al seguito, per poi andare a rastrellare le alture appenniniche alla ricerca di partigiani. È dunque verosimile che siano stati visti militi locali sfilare quella mattina verso il luogo della fucilazione. Invece è del tutto improbabile – se corrisponde al vero la presenza di un servizio d’ordine attorno al luogo dell’esecuzione – che qualcuno possa essersi avvicinato per osservare quanto stava avvenendo.
A distanza di tempo, hanno escluso il coinvolgimento di tifernati sia i testimoni che videro Gabriotti la mattina del 9 maggio, sia coloro che potevano in qualche modo avere informazioni dirette sul plotone di esecuzione, o averle acquisite. Affermò Amleto Bambini all’epoca milite della GNR e poi partigiano: “Conoscevo poco Gabriotti. In quei giorni stavo aspettando l’occasione propizia per scappare. Escludo che qualche castellano sia stato implicato nella fucilazione di Gabriotti. Chiesi in giro, ma mi dissero che erano tutti di fuori. Fui io, anzi, tra coloro che si informarono successivamente per ricostruire i nomi del plotone. Non c’è stato alcun ‘aggiustamento’ dei nomi”. Confermò la cosa anche Alvaro Sarteanesi:“Naturalmente non posso mettere la mano sul fuoco che non c’era alcun castellano, ma è realmente quanto so”. La testimonianza di Sarteanesi rivela anche l’atmosfera di circospezione che aleggiava nell’ambiente fascista: “Bisogna considerare che allora si parlava poco di ciò che avveniva.Il clima era fosco: i tedeschi diffidavano anche di noi fascisti. Tra di noi si temeva che qualcuno potesse fare il doppio gioco. C’erano tanta riservatezza e timore. Si obbediva agli ordini e si stava zitti. E chi comandava davvero allora erano i tedeschi”.
L’avv. Aldo Pacciarini – partigiano e, nell’immediato dopoguerra, posto a capo del corpo di polizia alleata Field Security Section a Città di Castello – ammise che, pur essendo al corrente della presenza di quattro o cinque militi tifernati sul luogo della fucilazione, non si volle infierire contro coetanei che avevano fatto la scelta sbagliata: “Mai avute prove dirette. Però non le abbiamo mai cercate fino in fondo, proprio perché consideravamo quelli della milizia dei giovani spostati, manovrati da tedeschi e fascisti, vittime come tutta la nostra generazione di eventi più grossi di loro. Nella milizia c’era anche la teppa di Castello, giovani della suburra che avrebbero fatto qualsiasi cosa nell’esaltazione militaresca e ideologica del periodo. Non ci fu opportunismo: non è vero che non indagammo perché c’era da coprire qualcuno che al momento opportuno aveva saltato il fosso ed era venuto con noi. […] È vero comunque che l’esperienza del Gruppo di Combattimento Cremona servì a ripulire molto e molti. Molto, perché nella frenesia degli avvenimenti non badammo troppo a cercare i colpevoli dei fatti di sangue avvenuti a Città di Castello; molti, perché mi son trovato accanto diversi coetanei che pochi mesi prima, nella milizia, mi davano la caccia”.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.