La prima croce sul luogo della fucilazione.
La croce sul greto del torrente Scatorbia e, più in alto, la lapide collocata nel 1954.

Il plotone di esecuzione

L’Italia settentrionale non era stata ancora del tutto liberata quando, nel primi mesi del 1945, uscì la prima biografia di Venanzio Gabriotti. In modo inequivocabile elencò i componenti del plotone di esecuzione, sottolineando che si erano offerti tutti volontariamente e che nessun fascista tifernate aveva “osato” farne parte. Questi i nominativi, integrati in quest’elenco con altre informazioni anagrafiche dedotte dagli atti processuali:
Filippo Faro, sotto-tenente, studente universitario di Agrigento, comandante del plotone, anni 22
Piermarino Gambacorta [talora scritto Gambacurta], sergente maggiore, studente universitario di Perugia, anni 23
Fernando Baldinucci, caporal maggiore, meccanico di Padule (Gubbio), anni 20
Bruno Ranconi [ma Ronconi], caporal maggiore, di Marsciano, anni 23
Vasco Topini, milite, di Pozzuolo (Perugia), anni 21
Franco Baccelli, milite, di Perugia, anni 21
Vincenzo Manganelli, milite, di Passignano, anni 22
Giovanni Sanna, milite, contadino di Ozieri (Sassari), anni 21
In tutto otto militari della Guardia Nazionale Repubblicana, quindi. Insieme a loro si trovarono un ufficiale tedesco e il sotto-tenente Giombini. Non è dato sapere se vennero indicati solo costoro in seguito alla mancata identificazione di altri. Sulla base della testimonianza di un milite fascista che assistette da sentinella all’esecuzione, avrebbero dovuto essere “circa 13”.
Degno di nota è che ben sei di essi (Baccelli, Baldinucci, Gambacorta, Ronconi, Sanna e Topini) furono pesantemente coinvolti anche nei fatti di Villa Santinelli di San Pietro a Monte di Città di Castello il 27 marzo di quell’anno: li si accusò – o sospettò – di aver fatto parte del plotone di esecuzione che fucilò nove partigiani. La biografia di Gabriotti venne ristampata e diffusa in gran numero di copie nel maggio 1954, decennale della sua morte. Anche questa edizione confermò, alle pagine 60-61, la composizione del plotone di esecuzione.
Gli atti del processo permettono di ricostruire come si arrivò all’identificazione dei militi. Furono alcuni degli stessi fascisti, interrogati nei primi mesi dell’inchiesta giudiziaria, a rivelare i nomi. Agostino Tavernelli, barbiere di 21 anni, dichiarò al pretore Celso Ragnoni che Franco Baccelli, Piermarino Gambacorta, Giovanni Sanna e Vasco Topini avevano “poi dichiarato espressamente, con una certa spavalderia di avere preso parte alla fucilazione del Gabriotti”.
Il sergente ventiduenne Remo Cancellieri dette questa testimonianza: “Vidi anche il plotone quando tornò. Quando tornarono tutti i compagni, o almeno la maggioranza, investirono con cattive parole i predetti, dicendo loro che erano ‘assassini volontari’ e parole del genere. Dei predetti, mentre alcuni si compiacevano della prodezza, anzi si può dire che tutti erano concordi e compiaciuti, il Gambacorta ritenne di scusarsi, dicendo che lui non aveva avuto coraggio di fare fuoco, che si era limitato solo a ordinarlo”.
Fu inoltre proprio Cancellieri a fare importanti rivelazioni “di sua spontanea volontà” al vescovo Cipriani; informazioni che il vescovo riferì al pretore Ragnoni nel gennaio 1945: “Il plotone di esecuzione fu accompagnato da Biagio Giombini e Filippo Faro. Era composto da sei uomini, comandati dal sergente Gambacorta, studente universitario di Passignano, che comandò il fuoco. Questo al Cancellieri fu raccontato dal caporale Ronconi di Marsciano, che insieme al caporale Bizzarri, pure di Marsciano, e al milite Baccelli di Perugia, facevano parte del plotone e volontariamente parteciparono all’esecuzione”.
Uno dei militi chiamati in causa, il contadino sardo Giovanni Sanna, mentre era detenuto nel carcere di Perugia non ebbe remore ad ammettere la sua partecipazione alla fucilazione: “È vero che io ho fatto parte del plotone di esecuzione che uccise il ten. col. Gabriotti e ciò mi fu ordinato dal ten. Scotti Edoardo”.
Vi è inoltre la testimonianza processuale di un milite ventenne, Giacomo Conti, che ricostruì quanto avvenuto parlando con i commilitoni (“dopo l’uccisione del Gabriotti mi informai chi fosse stato l’uccisore”). Confermò la partecipazione al plotone di tutti i nominativi elencati nella biografia di Gabriotti e aggiunse: “Seppi dai miei compagni che i militi si erano offerti volontariamente”.
Infine bisogna tener conto delle rivelazioni fatte da due tifernati che allora militavano nella GNR, ma che avrebbero disertato di lì a poco per raggiungere i partigiani della “San Faustino”, con i quali erano del resto già in contatto: Ubaldo Narducci e Amleto Bambini. Entrambi, in momenti diversi, fecero i nomi di Faro, Baccelli, Gambacorta, Manganelli, Sanna, Topini e Baldinucci, indicando quest’ultimo come loro fonte di informazione. E ribadirono che il plotone era composto di volontari.
Fernando Baldinucci e Vincenzo Manganelli ricostruirono invece diversamente gli eventi già tra l’ottobre e il dicembre 1944; Vasco Topini successivamente. A loro dire la fucilazione fu eseguita da soldati tedeschi, mentre loro due, su ordine di Faro, rimasero di sentinella tutt’intorno con altri militi italiani.
Un discorso particolare merita il sotto-tenente Filippo Faro. Già studente al quarto anno di lettere nell’università di Palermo, era giunto a Città di Castello nel gennaio 1944 come incaricato dell’insegnamento di tiro alla Scuola Allievi Ufficiali. Il 1° marzo, in seguito al trasferimento della Scuola a Orvieto, era stato assegnato alla prima Compagnia di Ordine Pubblico della GNR. Nell’assedio ai partigiani asserragliati a Villa Santinelli, aveva subito una ferita al fianco, per la quale rimase in ospedale fino al 20 aprile. Se si presta fede a un suo curriculum conservato fra gli atti processuali, poté godere di una licenza di convalescenza di 20 giorni, rientrando nella milizia il 20 maggio. In realtà tutte le testimonianze, anche degli altri militi della GNR, danno per assodata quanto meno la sua presenza il 9 maggio sul greto del torrente Scatorbia. Faro sarebbe fuggito da Città di Castello all’inizio di giugno per raggiungere la Liguria. Nell’agosto 1945 la questura di Imperia inoltrò al pubblico ministero della città ligure una denuncia contro di lui, elencando un’impressionante serie di violenze da lui commesse soprattutto nel nord Italia. Ne fece un profilo impietoso: “Egli si è dimostrato, durante il periodo di permanenza, privo di senso morale e di umanità, capace di qualunque azione per il suo scopo settario, senza nessun riguardo alla vita umana, ai dolori delle persone, alle donne, agli ammalati. Spavaldo e pieno di sé, convinto di possedere un’intelligenza superiore, non ammette, da buon seguace del suo Duce, alcuna contraddizione. Avendo assorbito ed assimilato la propaganda fascista fin dall’infanzia, ha imparato a fare della parola Patria il suo termine preferito, la falsa etichetta sotto la quale si nasconde ogni merce di contrabbando. Infatti egli se ne serve per giustificare tutte le infamie commesse; in nome della Patria e dell’onore; incendiò case, compì soprusi; imprigionò e torturò gli autentici patrioti e i loro favoreggiatori. Disgraziata Patria se tutti l’amassero come il tenente Faro!!!”

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.