Tra il cimitero e quella zona di campagna, ora densamente popolata, scorre il torrente Scatorbia. A quel tempo vi esisteva una chiusa, che tratteneva l’acqua a servizio del mulino detto “di Gavere”. Il luogo scelto per la fucilazione fu il greto del torrente, sotto la chiusa. Il milite Fernando Baldinucci avrebbe riferito al processo che un ufficiale tedesco ordinò ad alcuni militari di disporsi di sentinella a un centinaio di metri, tutt’intorno, per impedire ogni accesso; gli altri andarono a comporre il plotone di esecuzione. Erano 13. Furono visti disporsi davanti a Gabriotti, a una dozzina di metri di distanza, su due file; alcuni inginocchiati e altri in piedi. Faro rimase a fianco dell’ufficiale tedesco, in prossimità del condannato. Presenziò anche il vice-comandante del presidio della milizia Biagio Giombini.
Gabriotti si inginocchiò e pregò per qualche minuto. Devoto cattolico, certo soffrì per non aver ricevuto l’assistenza spirituale di un sacerdote così insistentemente supplicata. Poi tolse il soprabito e lo affidò a Giombini. Il giovane ufficiale avrebbe testimoniato: “[…] il Gabriotti mi consegnò alcuni suoi oggetti personali e mi disse che aveva lasciato al presidio una lettera per il cap. Nardi, detenuto a Città di Castello, lettera indirizzata alla sorella”.
Il condannato poi si mise a mani giunte guardando in alto. Rimase sereno fino alla fine. Quando il plotone di esecuzione fece fuoco, cadde all’indietro.
Tedeschi e fascisti raggiunsero subito i commilitoni in attesa lungo la strada per Belvedere e proseguirono per il rastrellamento. Il corpo di Gabriotti rimase sul greto del torrente. Poche ore dopo giunsero, per effettuare l’identificazione formale e la ricognizione del cadavere, il pretore Celso Ragnoni, il brigadiere Aldo Cornioli e il dottor Corrado Pierucci. Il medico scrisse nel verbale: “Il cadavere giace sul greto del torrente Scatorbia subito dopo la chiusa in posizione supina con gli arti inferiori distesi leggermente divaricati, gli arti superiori aperti verso l’interno e gli avambracci ripiegati rivolti verso l’alto. Indossa una giacca di lana marrone, pantaloni e panciotto analogo, le scarpe nere, calze grigie, camicia grigia, mutande azzurre, cravatta marrone a righe, bretelle di seta grigie, maglia marrone. […] Presenta altresì 11 ferite da arma da fuoco, una all’addome, 4 al torace, 4 al braccio sinistro, 2 alla regione mentoniera”.
Don Vincenzo Pieggi non era riuscito a dormire durante la notte. Dopo aver sentito in lontananza dei colpi d’arma da fuoco, andò col cuore in tumulto verso la caserma della milizia. Incontrò per strada proprio il sottufficiale al quale aveva raccomandato di essere avvertito se fosse stata confermata la condanna a morte di Gabriotti. Gli chiese notizie e si sentì rispondere, con totale indifferenza: “Tutto è fatto”. Pieggi non trattenne la rabbia: “Sentii salirmi alla faccia una ondata di sdegno: Perché non m’avete chiamato? Avete colmata la misura. Avete negato a un eroe, ingiustamente condannato, anche il supremo conforto della fede!”
Dopo la fucilazione, Giombini era andato in motocicletta al vicino cimitero, ordinando di rimuovere la salma di Gabriotti. Gli risposero che necessitava un nulla osta formale, che poteva rilasciare anche lui in quanto vice-comandante del presidio. L’ufficiale della milizia “rimontò nella sua moto per ritornare in città, dicendo seccamente che non aveva tempo da perdere, che il cadavere era nel punto indicato e che il custode facesse quello che voleva”. Il responsabile del cimitero, Vincenzo Lensi, si recò in città, prese contatto con alcuni famigliari – seppero da lui della morte del congiunto –, con il vescovo e altri sacerdoti, con il maresciallo Fiaschi e infine con il commissario prefettizio Orazio Puletti. Gli fece presente che i Gabriotti avevano una tomba di famiglia. Ebbe in risposta “che era applicabile l’ordinanza Rocchi secondo cui il seppellimento [dei ‘ribelli’, n.d.a.] doveva avvenire senza pompe civili e religiose; solo un cippo con il numero doveva indicare il luogo della sepoltura”. Autorizzò comunque – però la cosa “doveva rimanere sconosciuta” – di rivestire la salma con la divisa militare e di collocarla in una bara metallica.
Intanto la notizia della morte di Gabriotti si era diffusa per la città in modo incredibilmente veloce. Vi contribuirono anche i lattai, che quotidianamente, di buon ora, effettuavano il loro giro capillare strada per strada. Sul posto sopraggiunsero il cognato e due amici del defunto. Trovarono il corpo coperto dal soprabito e piantonato da tre militi. Don Giuseppe Pierangeli gli impartì l’estrema unzione. Piero Marinelli e la cognata, fingendosi parenti, furono autorizzati dalle sentinelle a restare. Il nulla osta per la rimozione giunse alle ore 10. Il custode, Tarcisio Perugini, portò la salma al cimitero con un carretto. A rivestirla pensò un altro amico, Antonio Darderi.
La bara con il corpo di Gabriotti fu poi inumata al n. 159 del quadro 11 del campo comune. In serata il personale del cimitero dovette rimuovere il fiore deposto da qualche sconosciuto.
Nel testamento, Gabriotti aveva chiesto un funerale “modestissimo” e senza la presenza degli amici. Almeno in questo, paradossalmente, fu accontentato. Tuttavia avrebbe pure desiderato la preghiera in chiesa delle suore e di essere accompagnato al cimitero con il carro funebre usato per i poveri, la “Carolina”. La sua era una supplica a chi, al momento della morte, si sarebbe trovato a guidare il Comune: “Questa grazia me la conceda, tenuto conto che ho amato tanto con la Patria la mia città natale”.
Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.