Problemi di igiene e di salute pubblica nella valle

Documenti d’archivio e cronache del tempo della Grande Guerra svelano una realtà igienica alquanto arretrata nell’Alta Valle del Tevere. Frutto di povertà e ignoranza assai diffuse, mal fronteggiata da autorità municipali con scarsi mezzi e comunque, talvolta, poco consapevoli dei rischi che incombevano sulla pubblica salute, la sporcizia regnava soprattutto nelle campagne e nei quartieri urbani popolari. Non pare che vi fossero isole felici nella valle.
A Pieve Santo Stefano la guardia municipale Alessandro Martini redasse una severa relazione sull’operato dello spazzino Del Picchio, accusandolo di non essere “un lavoratore indefesso”. Tuttavia dovette sottolineare che non poteva bastare un solo spazzino in un paese nel quale l’igiene e la buona educazione lasciavano “molto a desiderare”. Si legge nella relazione: “[C’è] l’abuso di buona parte della popolazione nel fare depositi di spazzatura, nell’ingombrare le strade, nel gettare immondizie dalle finestre a tutte le ore del giorno. Vi sono galline e oche, capre e conigli che liberamente godono dei pubblici passeggi, e di qualche strada interna, si abbandonano senza ordine sulle strade barrocci carichi e scarichi, botti e attrezzi di ogni specie, in molti luoghi si fanno depositi di legname e di materiali da costruzione senza il previo permesso dell’autorità municipale, si stende fieno, si mettono pelli ad asciugare, si transita con legnami a trascino e con tregge, si commettono insomma liberamente una quantità di abusi che concorrono a ingombrare, a insudiciare ed a danneggiare le strade” [1].
Nel loro solerte impegno per l’emancipazione anche morale dei lavoratori, i socialisti non si limitarono a criticare l’inadeguatezza delle amministrazioni comunali, ma denunciarono severamente il malcostume di tanta gente. Così, a San Giustino: “I maiali si tengono negli stalluzzi entro il paese, li si abbeverano fuori delle case, da dove si butta, in mezzo alla strada, ogni ben di dio”; a Città di Castello: “Per mancanza di pozzi neri, tutto vien gettato nelle famose intercapedini, veri focolai d’infezione; le stalle sgombrate dal letame dovrebbero essere disinfettate giornalmente obbligando i proprietari in tutto e per tutto all’osservanza del regolamento municipale”; e a Sansepolcro: “Il nostro paese è stato così negletto, così trascurato a questo proposito. Le immondizie sono accumulate ovunque, per le vie, per i marciapiedi, nei luoghi di passeggio. Bisogna turarsi il naso spesso se si vuole transitare da qualche luogo” [2].
Di particolare interesse, per sottolineare l’intreccio tra miseria e carenza di igiene, è una cronaca de «La Rivendicazione» sulle condizioni di vita della popolazione di Montagna, la “frazione più disgraziata” di Sansepolcro: “[…] alla Montagna sono tutti proprietari, proprietari per modo di dire; proprietari forse non tanto di beni e di ricchezze quanto di mali e di miserie. Ognuno possiede due palmi di terreno coltivato, un po’ di bosco ed una maggiore estensione di sasseto e di brughiera con una capanna per abitazione. Bisogna vedere in quali casupole, in quali tuguri abitano i più. Non pochi vivono vita promiscua col porco, con la capra e con la pecora e quelli che non stanno assieme con gli animali, ne sono separati da un tavolato mal connesso e sconquassato dalle cui larghe fessure le esalazioni morbose del porcile e della stalla passano nella camera da letto. Tuttavia essi sono attaccati alle loro capanne, ai loro sassi, ai loro campicelli, ai loro boschi e dallo sfruttamento di questi e con l’allevamento di qualche capo di bestiame trovano modo di alimentare sé e la famigliola” [3].
I documenti d’archivio aprono altri inequivocabili spaccati sulle carenze igieniche della società dell’epoca. Nell’agosto del 1917 il comandante del distaccamento militare incaricato di vigilare sui prigionieri austro-ungarici impiegati nella miniera di lignite presso Sansecondo dovette chiedere al sindaco di Città di Castello di eliminare con prontezza un “gravissimo inconveniente” nell’alloggiamento delle sue truppe: “Sopra l’alloggio dei prigionieri di guerra abita una donna che, sembra, non abbia latrine e che getta per la finestra nel cortile di giorno e di notte ogni ben di Dio, con quanto vantaggio dell’igiene è facile immaginare. I prigionieri che sotto di lei dormono non solo hanno protestato presso questo Comando ma si sono rifiutati di continuare a dormire nelle camerate sottostanti, poiché di notte oltre il profumo, essi sono sovente bagnati dalle acque poco profumate che la sunnominata donna regala al cortile”. L’ufficiale aveva tentato di intervenire presso la donna, che però non si era lasciata minimamente intimidire dalla divisa: “è anche tale persona con cui non è facile trattare” [4].
Ad aggravare i problemi igienici di Sansepolcro ci si misero proprio i soldati del locale distaccamento, a riprova che certi episodi di malcostume erano diffusi ben oltre il territorio altotiberino. I cittadini reclamarono per lo “sconcio” che si verificava nelle vie Umberto I e Santa Croce, a causa delle “materie liquide e solide” che alcuni soldati avevano preso l’abitudine di gettare dalla caserma; altri poi solevano “orinare ed evacuare sulle pubbliche vie della città” [5].

 


[1] Archivio Storico Comunale di Pieve Santo Stefano, Verbali della giunta municipale, 26 giugno 1919.
[2] «La Rivendicazione», 1° settembre 1917, 28 settembre e 5 ottobre 1918.
[3] Ibidem, 8 giugno 1918.
[4] Archivio Storico Comunale di Città di Castello, Lettera al sindaco del comandante del Distaccamento di Sansecondo (Umbria) del Reparto Prigionieri di Guerra di Cassino, 10 agosto 1917.
[5] Archivio Storico Comunale di Sansepolcro, Esposto del brigadiere di polizia municipale al sindaco, 18 gennaio 1916; Lettera del comandante del distaccamento militare al sindaco, 20 gennaio 1916.