Aldo Bologni
Sulla destra, dietro ai carabinieri, la cella dove fu inizialmente detenuto Gabriotti.
Uno dei biglietti scritti da Gabriotti e recapitati ai famigliari.

Primo giorno di detenzione e morte di Aldo Bologni

Quel 5 maggio Gabriotti rimase in isolamento nella cella al pianterreno della caserma dei carabinieri di Palazzo Vitelli a San Giacomo. Lo preoccupava soprattutto il rischio di arresto che stavano correndo gli altri antifascisti. Gli venne in aiuto un altro amico che aveva tra i militi, il sottufficiale Silvio Serafini, magazziniere della GNR. Appena poté, questi aprì lo spioncino della cella e chiese al detenuto cosa potesse fare per lui. Gabriotti – ebbe a dire Serafini – colse subito l’occasione: “Mi pregò di avvertire l’avv. Donini di giustificare con questioni di amministrazione ecclesiastica un certo giro che entrambi avevano fatto; poi mi consegnò diversi foglietti, pregandomi di recapitarli ai suoi famigliari”. Sostanzialmente analogo quanto Serafini testimoniò nell’istruttoria per il processo: “[…] lo chiamai dallo spioncino, dicendogli che ero a sua completa disposizione per qualunque cosa gli occorresse. Il Gabriotti mi incaricò subito di recarmi dal cognato Ciliberti, anzi, dalla sorella Adelaide Gabriotti”. Fu grazie a quei foglietti che riuscirono tempestivamente a rendersi irreperibili Giulio Pierangeli, Giuseppe Nicasi e Maurizio Bufalini, tenente dei carabinieri che non aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana e che clandestinamente stava dando un prezioso apporto alla Resistenza. Sottolineò Serafini: “Avrei potuto fare molto di più per lui, ma non me lo chiese”. Un altro milite ebbe modo di avvicinare Gabriotti, Virgilio Gentili: “Andai a trovarlo per salutarlo, eravamo amici. Mi disse: ‘L’ hai visto l’avv. Donini?’ Risposi di sì. ‘Salutamelo, digli che sto bene’. Non pensava di fare quella fine. Gli chiesi se gli occorreva nulla, rispose di no”.
Al di là della simpatia nutrita da qualche milite verso Gabriotti, tali episodi sottolineano come la GNR tifernate non fosse un corpo rigorosamente disciplinato, ideologicamente molto motivato. Tanto è vero che a livello popolare prese a essere denominata come “Bilincièna”, termine dialettale per contraddistinguere una donna sciatta, malmessa.
Nella notte dal 5 al 6 maggio avvenne un fatto che acuì la tensione politica e militare in tutta la valle. La Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino” fece un’incursione su Montone per disarmare il presidio fascista. Riuscì facilmente nell’intento, ma nel ritirarsi dal paese s’imbatté in due camion di tedeschi che, dirigendosi verso nord, avevano sbagliato strada. Per quanto casuale, lo scontro a fuoco tra tedeschi e partigiani fu assai cruento. Vi trovò la morte Aldo Bologni.
Gabriotti, che aveva passato la notte “come un volgare delinquente” nella “fetida camera di sicurezza”, dormendo “sopra un tavolaccio sgangherato”, non fu informato di quanto successo a Montone e della morte del giovane amico e collaboratore. Quale fosse l’atmosfera quel giorno nella stazione dei carabinieri tifernati lo testimoniano le parole del capitano Alberto Ivano Nardi (nato a Ferrara, all’epoca quarantunenne e residente nella frazione tifernate di Lugnano), detenuto in un’altra cella al primo piano del palazzo: “Il pomeriggio fu triste, uggioso, interminabile. Nella caserma regnava un penoso silenzio; ufficiali, sottufficiali e molti militi erano andati a Montone, ove infuriava la rappresaglia nazi-fascista”.
Nardi, che 1943 aveva ricoperto la carica di Capufficio Tiro della Scuola Centrale di Artiglieria dislocata a Città di Castello, era stato arrestato nel primo pomeriggio del giorno prima a Lugnano. Lo avevano sorpreso a distribuire tra la popolazione grano sottratto all’ammasso a Cerreto, presso Canoscio, dalla banda partigiana di Monte Santa Maria Tiberina guidata da Guerriero Baffo. Incarcerato a Città di Castello, approfittando delle sue conoscenze tra i carabinieri aveva ottenuto di venir recluso nella camera di punizione al primo piano della caserma, con letto, materasso e coperte. Nella giornata del 6 maggio riuscì a parlare con dei militi fascisti e a rendersi conto che gli eventi di Montone avrebbero inasprito i contrasti politici, provocando una dura repressione contro gli oppositori del regime fascista e dell’occupazione tedesca.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.