La caserma dei carabinieri da via del Luna. La foto mostra le finestrelle delle celle al primo piano.
Il "bando Mussolini".

7 maggio. Il primo interrogatorio. In cella con Alberto Ivano Nardi

Gabriotti subì un primo interrogatorio alle 9.30 di domenica 7 maggio, nell’ufficio del comandante del presidio Brighigna. Lui stesso avrebbe riferito che lo inquisirono Brighigna e il seniore della milizia Pietro Gambuli; soprattutto Brighigna si sarebbe mostrato “accanito” con lui, minacciandolo di trasferimentoa Perugia, “dove lo avrebbero fatto parlare”. Ben diversa la deposizione di Brighigna al processo: “Nego risolutamente di aver partecipato all’interrogatorio del Gabriotti e respingo come calunniosa l’accusa di aver infierito con domande e contestazioni nei riguardi del Gabriotti. L’interrogatorio fu fatto da alcuni ufficiali tedeschi e anche italiani, dei quali ignoro il nome”. Ma il comandante del presidio venne smentito da Pietro Gambuli, che affermò di aver affrontato Gabriotti “in presenza del Brighigna”. Anche una relazione dei carabinieri redatta nell’immediato dopoguerra avrebbe confermato la partecipazione di Brighigna all’interrogatorio.
La testimonianza di Gabriotti fu raccolta da Alberto Ivano Nardi immediatamente dopo l’interrogatorio, quando gli venne concessa una cella più dignitosa e andò a condividere proprio quella di Nardi al primo piano. Il racconto dell’ufficiale è molto circostanziato. Brighigna rivelò a Gabriotti che era pedinato da diverse settimane, “ostentò un voluminoso incartamento” con le relazioni di informatori e informatrici e asserì di possedere l’elenco quasi completo del locale comitato clandestino di liberazione da lui presieduto. Poi, mentre Gabriotti tentava di difendersi dalla accuse, lo incalzò: “Non potete negare, però, i vostri continui rapporti con i ribelli, perché siete stato visto e seguito, fino al punto che vi si è fotografato mentre andavate a Pietralunga, insieme al defunto ten. Bologni, per un colloquio con il capobanda Pierangeli, al quale avete consegnato un plico, evidentemente con istruzioni per l’attività dei partigiani”.
Per quanto turbato da quel riferimento al “defunto” Aldo Bologni – venne a sapere solo allora della sua morte – e preoccupato per la mole di informazioni che le autorità fasciste asserivano di aver acquisito, Gabriotti cercò di dare spiegazioni credibili. Non negò di aver incontrato il comandante della “San Faustino” – ammissione che gli sarebbe stata fatale –, ma sostenne di avergli portato, “per debito di amicizia”, una lettera del padre Giulio, che lo invitava ad approfittare della grazia concessa da Mussolini “agli sbandati che si fossero presentati entro il 25 maggio”.
L’insieme della documentazione rivela che un ruolo centrale nell’interrogatorio lo ebbe anche Pietro Gambuli. Non solo intervenne più volte per contraddire le affermazioni di Gabriotti, ma dette all’inquisito “la sensazione precisa di essere stato spiato, pedinato e controllato” da persone che gli avevano fornito “informazioni ricavate dai pedinamenti stessi”. Ciò soprattutto quando Gabriotti cercò di sostenere che “la sua gita nella zona di Pietralunga in compagnia di Aldo Bologni non era in rapporto con l’attività dei partigiani”.
Nella sua ricostruzione dell’interrogatorio, Gambuli non andò oltre l’ammissione di aver sollecitato Gabriotti a dissuadere Bologni dallo svolgere attività politica. Quindi affermò: “A ciò il Gabriotti replicò di non aver mai parlato col Bologni di politica. Io però gli feci osservare che qualche sera prima l’avevo visto recarsi insieme con il nipote Ciliberti nella casa del Bologni. Il col. Gabriotti ammise di essersi recato a casa del Bologni, ma solo per ragioni di studio riflettenti il nipote. Dopo di ciò mi allontanai e non ebbi più occasione di parlare con alcuno del Gabriotti”.
La citata relazione dei carabinieri dette però pieno credito alla versione di Nardi, in un contesto che ricostruisce lucidamente la strategia accusatoria dei fascisti. Vi si legge a proposito di Gambuli: “[…] in uno di questi interrogatori finisce per ammettere, seppure in forma tortuosa di avere personalmente contestato al col. Venanzio Gabriotti la sua intimità con il ten. Aldo Bologni. È di ciò che il Brighigna aveva bisogno. Occorreva a lui, cioè, porre il Gabriotti in presenza di uomini che ne avevano spiato le mosse e che erano in grado di esporre le circostanze di tempo e di luogo tali da impedirgli un’ulteriore difesa, di deciderlo a confessare e rivelare altri nominativi di persone, per stroncare così il movimento patriottico della città”.
Non si è mai saputo se dell’interrogatorio di Gabriotti sia stato redatto un verbale o un sunto. Si disse invece che l’incartamento che lo riguardava fu bruciato da Brighigna nel giugno successivo, quando insieme ad altri dirigenti fascisti abbandonò Città di Castello all’approssimarsi del fronte bellico.
Dopo un’ora e mezza di interrogatorio, Gabriotti fu condotto nella cella che avrebbe condiviso con Alberto Ivano Nardi. Brighigna gli chiese se non avesse nulla in contrario – lui colonnello – a far vita in comune con un ufficiale di grado inferiore. Al che Gabriotti rispose: “Veramente si è ricordato un po’ tardi del mio grado militare”.
L’intesa fra i due fu immediata sul piano umano. Del resto Gabriotti conosceva l’orientamento democratico di Nardi, che non aveva esitato a reperire della carte topografiche per i partigiani del territorio. Nardi fu conquistato dalla personalità dell’illustre compagno di prigione: “Parlatore affascinante, brioso e instancabile, mi fece trascorrere un pomeriggio ed una serata deliziosi con la narrazione di innumerevoli gloriosi episodi della prima guerra mondiale […]”.
Si ingiunse ai due detenuti di non avere alcun contatto non autorizzato con l’esterno. Fu permessa solo la visita della moglie di Nardi e di Annita Gabriotti, sorella di Venanzio, che portarono del cibo.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.