Sulla sinistra il palazzo vescovile, , dove era l’ufficio di Gabriotti.

5 maggio: l’arresto

La mattina del 5 maggio, verso le ore 9, Brighigna convocò nel suo ufficio il vice-brigadiere dei carabinieri Aldo Cornioli e il milite della GNR Carlo Gentili. Dal dicembre 1943 milizia fascista e corpo dei carabinieri erano stati accorpati. Tuttavia il comando di presidio della GNR era al n. 19 di via XI Settembre, a fianco della chiesa del monastero delle Clarisse Murate, mentre la stazione dei carabinieri aveva sede nella stessa via, a palazzo Vitelli a San Giacomo. Ricordò Gentili: “[Brighigna] ci dette una solenne strapazzata perché durante la notte era scappato il detenuto Baldelli Pierre, arrestato per furto in danno dei tedeschi”. Questo dettaglio ha una certa importanza, perché smentisce una ricostruzione dei fatti poi tramandata a livello popolare, secondo la quale il Baldelli colse l’occasione di evadere dopo l’arresto di Gabriotti, quando qualche milite compiacente lasciò aperta la porta della cella per favorirne la fuga. Risulta invece che Baldelli evase in precedenza.
La testimonianza di Gentili ci riporta alla vicenda di Gabriotti: “Indi mostrandoci un ordine di arresto per il Gabriotti e per il Bologni, [Brighigna] disse: ‘Vedremo se vi farete scappare anche questo. Andatelo ad arrestare’”. Ma – a dire di Gentili – il comandante del presidio non trovò alcuna collaborazione: “Io e Cornioli declinammo l’incarico, adducendo pretesti vari; io dissi che era mio amico di famiglia, come in effetti era, ed il Cornioli che non lo conosceva”. Si tirò indietro anche il maresciallo dei carabinieri Emo Fiaschi: “[…] il Fiaschi lì comparso disse egli stesso che non voleva eseguire l’arresto”. Che il maresciallo non sapesse ancora di quell’ordine di arresto e che si rifiutasse di eseguirlo personalmente lo pensò anche la sorella di Gabriotti, Annita, che affermò al processo: “Fiaschi sempre avvertiva o mandava ad avvertire coloro che dovevano essere arrestati; io mi convinsi che l’arresto doveva essere ordinato dal Brighigna, il quale odiava mio fratello”. L’incombenza di prelevare Gabriotti cadde infine sul sergente piemontese Teresio Prandi e sul milite tifernate Giampiero Pierleoni.
Nel frattempo una donna raggiunse Gabriotti a casa della sorella e lo invitò a raggiungere urgentemente l’amico Mario Benni nel suo negozio di generi alimentari. Appena vi arrivò, Benni lo supplicò a rendersi irreperibile: poco prima, una cliente aveva incautamente parlato dei suoi contatti con i partigiani proprio mentre in negozio sostavano due uomini, che lui sapeva essere militari in borghese delle SS, le Schutzstaffel, corpo di élite del nazismo. Anche in quella circostanza Gabriotti sottovalutò il pericolo. Avrebbe raccontato Benni: “[…] mi rispose con il suo viso gioviale: ‘Ma non te la prendere. Non mi faranno nulla’. E si avviò verso l’ufficio”.
Di lì a poco si presentarono in vescovado Prandi e Pierleoni, con un carabiniere che rimase a piantonare l’ingresso sulla piazza. Entrarono nell’ufficio di don Pietro Fiordelli e gli chiesero di condurli da Gabriotti. Il sacerdote tergiversò, cercò di prendere tempo, quindi condusse i due militi stanza per stanza, dove era certo che non si trovasse Gabriotti, sperando che intanto lui si accorgesse di quanto stava avvenendo e si mettesse al sicuro. Ma ciò non avvenne.
Prandi e Pierleoni raggiunsero infine l’ufficio di Gabriotti. Era con lui Speranza Lilli Ascani, che così testimoniò al processo: “Al momento del suo arresto io ero nel suo ufficio e stavo leggendo una lettera di Geo Gaves (cap. Stelio Pierangeli). […] Dopo qualche istante ribussarono e io, presa dalla paura, feci scomparire la lettera. Comparve il sergente Prandi, il quale con gentilezza pregò il Gabriotti di seguirlo. Il Gabriotti si fece pallido. Io per dargli modo di riprendersi, attaccai un futile discorso ed egli ebbe agio così di consegnarmi un documento sotto il naso del sergente. Quindi con disinvoltura rificcò in uno scaffale un vecchio libro che conteneva documenti compromettenti. Poi seguì i militi. Io con in tasca la lettera di Geo Gaves e con il documento che mi aveva consegnato il Gabriotti me la svignai”-
Nel pianerottolo del vescovado, Gabriotti vide don Vincenzo Pieggi e, alla presenza di don Pietro Fiordelli e con il beneplacito dei due militi, gli consegnò alcuni documenti e del denaro. Quindi fu condotto alla caserma dei carabinieri.
Pieggi, Fiordelli e il vicario mons. Ernesto Piani non persero tempo. Entrarono nello studio di Gabriotti, dove sapevano trovarsi documenti compromettenti, e li fecero sparire: “Dentro un librone di curia, sotto la copertina”, –  ricordava Fiordelli – “c’erano dei fogli importanti, con dei nomi”. Così, quando i militi tornarono per perquisire approfonditamente l’ufficio, portarono via molta documentazione, ma senza trovare nulla che potesse ritorcersi contro Gabriotti e altri antifascisti.
Non si trattava del primo provvedimento di arresto a carico di Gabriotti. Il pomeriggio del 26 luglio 1943 era stato fermato e portato in caserma dai carabinieri mentre distribuiva il numero unico «Rinascita». Ne risultava direttore responsabile e gli fu contestata la mancata autorizzazione alla diffusione. Lo rilasciarono in serata anche perché «Rinascita», redatto da Gabriotti insieme a Giulio Pierangeli, pur chiamando a raccolta i democratici all’indomani della votazione di sfiducia a Mussolini, mostrava chiari intenti patriottici.
Un nuovo ordine di cattura per attività sovversiva era stato emesso contro di lui il 4 novembre 1943. Avvertito del provvedimento, si nascose a casa della sorella Adelaide, al n. 6 dell’odierno largo Magherini Graziani, a pochi metri di distanza dal comando della GNR. Il fatto è che uno degli amici che Gabriotti aveva tra i fascisti era addirittura l’influente capo-zona del partito, Fernando Ricci. Ciò spiega perché durante la sua latitanza, che si protrasse fino al 14 dicembre, si permise di andare a messa la mattina di buon ora nella chiesa della Madonna delle Grazie e, talvolta, di recarsi in vescovado a parlare con il vescovo e con altri collaboratori. Una volta cenò addirittura con lo stesso Ricci e un altro dirigente fascista, Luigi Gentili, in un angolo nascosto del Ristorante Severi. La sera scrisse rilassatamente nel suo diario: “L’amicizia supera le differenze di parte”.
Tali precedenti, e le amicizie di cui godeva, forse illusero Gabriotti di poter ancora farla franca. Ma stavolta era diverso.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.