L’estremo tentativo di evitare la fucilazione

Nella cella era calato il buio più completo. Lo squarciò talvolta la lampada delle sentinelle, che, dandosi il cambio, entravano per sincerarsi che il condannato a morte fosse all’interno.
Nardi, seduto su uno sgabello con la testa raccolta fra le mani, vedeva Gabriotti muoversi di continuo da un capo all’altro, soffermandosi spesso in preghiera. Non se la sentì di disturbarne il raccoglimento e rimase in silenzio. Fu Gabriotti a prendere l’iniziativa di dire qualcosa. Ebbe un pensiero gentile per il compagno di disavventura: “Mi dispiace per lei che attraversa ore così poco piacevoli”. Poi, si lasciò andare a una confidenza sul suo impegno pubblico: “Per la mia città avrei fatto volentieri qualche altra cosa, ma non ho mai avuto ambizioni di portata nazionale”.
Dopo un po’ anche Nardi prese a camminare per la cella: “Attraversavamo la stanza, pressoché quadrata, secondo le diagonali, e c’incrociavamo verso il centro della medesima. Di tanto in tanto uno scambio di battute: ‘Buona passeggiata!’, ‘Buona notte!'”.
Il tempo trascorse molto lentamente. I due si adagiarono sui rispettivi letti solo per tre ore, senza dormire. Mentre Nardi faceva qualche tirata di sigaretta, udiva Gabriotti pregare sommessamente. Poi il condannato chiese di poter camminare ancora. Disse al compagno: “Vede quanto è lunga la strada per giungere al Purgatorio?”.
Intanto, nella notte dall’8 al 9 maggio si consumava l’estremo tentativo di salvare la vita di Gabriotti. I dirigenti fascisti più avveduti ben sapevano che la sua morte avrebbe comportato conseguenze gravissime anche per loro. Il 13 settembre del 1943 avevano sottoscritto insieme alle personalità più in vista dei partiti democratici un impegno solenne a rifuggire da ogni forma di violenza e di vendetta. Per chi si fosse sottratto a quell’impegno non ci sarebbe stato che disprezzo. Nei conciliaboli tra fascisti, comunque, la questione Gabriotti veniva trattata con grande prudenza. Ammise l’ufficiale della milizia Alvaro Sarteanesi: “Si parlava sempre concisamente e con circospezione di queste cose: cosa avrebbero potuto pensare i tedeschi se immaginavano che si stesse cercando di salvare un partigiano?”.
In questo scenario, parve che l’ultima carta da giocare fosse l’intervento del massimo gerarca fascista umbro, Armando Rocchi. Si sapeva che il capo della Provincia, per quanto irritato dall’attività antifascista di Gabriotti, lo stimava per il suo passato di valoroso militare della Grande Guerra, tanto che, non molto tempo prima, lo aveva invitato con una lettera personale a recedere dalla sua condotta antigovernativa. Partì dunque da Città di Castello una delegazione composta da Orazio Puletti, Alberto Gamberi e due ufficiali della milizia, i sotto-tenenti Quintilio Caparvi e Peri.
Una testimonianza di quel viaggio venne dall’autista Giuseppe Sarti: “Arrivammo a Perugia verso l’una di notte e i quattro si recarono in prefettura. Essi durante il viaggio parlavano preoccupati per la sorte del ten. col. Gabriotti Venanzio e studiavano e si consigliavano di usare una forma tale da poter convincere ed impietosire il prefetto Rocchi ed evitare che il Gabriotti venisse fucilato. Dal modo di come si esprimevano erano tutti indignati del provvedimento tedesco a carico del Gabriotti. Quando i quattro ritornarono, dopo oltre un’ora e mezzo, capii dai loro ragionamenti che il prefetto non aveva potuto far nulla, perché il Gabriotti era già in mano ai tedeschi”.
Sarti sostanzialmente confermò quanto raccontato da Caparvi: “Il prefetto rispose che era spiacente per il Gabriotti, ma data l’ora tarda, la mancanza di tempo materiale per poter intervenire e soprattutto stando le cose come stavano, non poteva fare più nulla”.La delegazione tornò quindi a Città di Castelloalle prime luci dell’alba, quando Gabriotti stava per essere condotto alla fucilazione.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.