L’intervento del vescovo Cipriani

Intanto, in cella, anche Nardi pensava che si poteva salvare la vita di Gabriotti solo con l’intervento di una personalità autorevole che ne richiedesse la deportazione in luogo dell’esecuzione capitale. Convinse il compagno di cella a coinvolgere il vescovo. Così Gabriotti, non senza qualche tentennamento, scrisse una lettera a mons. Filippo Maria Cipriani, esponendo il suo caso. Non fu difficile, poi, attrarre l’attenzione di un milite benevolo che recapitasse prontamente la missiva in vescovado.
In realtà Cipriani era già al corrente di quanto stava succedendo. A Citerna per una festa religiosa, ricevette una telefonata da don Antonio Minciotti, che lo sollecitò a tornare subito in città. Il sacerdote in mattinata era stato avvicinato dal commissario prefettizio Orazio Puletti nella caserma dei carabinieri, mentre si interessava alla sorte del fratello rastrellato. Puletti gli aveva sussurrato, chiedendo la massima riservatezza: “Gabriotti è perduto: porti qui a tutti i costi il vescovo”.
Intanto, nell’attesa di uno sviluppo positivo degli eventi, Gabriotti scrisse una lettera ai famigliari. Lo fece con mano sicura, “senza cancellature e attimi di esitazione”, mentre la visibilità diminuiva nella cella sprovvista di illuminazione. Quindi la dette a Nardi, perché la consegnasse dopo la sua morte. Questi sono alcuni brani: “Madonna di Pompei, ore 19.30 Miei cari tutti, forse sono le ultime ore di questa mia vita disgraziata, che non ha mai avuto un raggio di luce, ma nella quale ho sempre lottato per un’Idea: la grandezza della Patria. […] Perdono a tutti quelli che possono avermi fatto del male e con tanto affetto abbraccio i parenti, sorelle, cognati e nepoti. […]”.
Poi “prese una seggiola, la portò nell’angolo più buio della camera, vi salì a ginocchioni e si mise a pregare con grande fervore”. Poco più tardi la porta della cella si aprì per far entrare Annita Gabriotti, che portò del cibo. Il fratello le nascose la dura realtà, dicendole che l’indomani sarebbe stato trasferito a Perugia.
Nessuno dei due detenuti se la sentì di mangiare qualcosa. Mentre camminava pensoso per la cella, Gabriotti mormorò al compagno: “Credevo che il sapere di morire a distanza di poche ore facesse più impressione. Mi sento tranquillo e sereno, senza ostentazione”.
Finalmente, alle 21, vennero introdotti nella cella il vescovo Cipriani, don Vincenzo Pieggi, il commissario prefettizio in Comune Orazio Puletti e il capo-zona del Fascio Fernando Ricci. Cipriani chiese innanzitutto a Gabriotti se corrispondesse a verità la sua confessione di “connivenza con i patriotti”; questi negò di aver confessato e ribadì la sua versione dell’incontro con Stelio Pierangeli. Gabriotti parve tranquillo, tanto che il vescovo avrebbe successivamente sottolineato: “[…] anche in ordine all’assistenza religiosa mi disse che in coscienza era a posto e che ne avrebbe approfittato a tempo opportuno”. A un certo punto della conversazione Puletti e Ricci si appartarono con Gabriotti. Nardi, a colloquio con il vescovo, riuscì a orecchiare quanto si dicevano. Puletti premette su Gabriotti perché rivelasse i nomi del comitato clandestino, altrimenti sarebbe stato impossibile aiutarlo. La risposta fu netta: “Ma se Brighigna ha detto di avere già in mano l’elenco! Comunque, piuttosto che macchiarmi di una così ignobile bassezza, darei la vita cento volte, non una”.
Non vi era molto altro da dire. Gabriotti salutò affettuosamente Cipriani, che lo benedisse e promise di intervenire subito presso il comando tedesco. Poi strinse a sé l’amico Pieggi, chiedendogli con le lacrime agli occhi: “Se sarò giustiziato, voglio l’assistenza religiosa: non mi lasciar solo”. Il sacerdote, commosso, lo rassicurò e, nell’uscire dalla caserma, fece presente a un sottufficiale della milizia che sarebbe rimasto a disposizione a qualsiasi ora della notte.
Cipriani e Pieggi si recarono al Collegio della Gioventù Italiana del Littorio (GIL), dove i tedeschi erano acquartierati insieme alla compagnia di Ordine Pubblico della milizia fascista, un nucleo operativo composto per lo più da forestieri, politicamente molto motivato. Si situava a poca distanza, a ridosso delle mura urbiche del rione San Giacomo, nello stabile già sede del prestigioso Collegio Convitto Serafini. Diventato di proprietà della GIL, era stato ristrutturato, con l’erezione tra il 1942 e il 1943 di una facciata nello stile romaneggiante tipico del regime.
Il vescovo fu costretto a una lunga attesa prima di poter parlare con Tatoni. Quello che successe, quando finalmente lo fecero entrare, lo descrisse in modo vivido Pieggi: “La scena che si presentò al nostro sguardo fu disgustosa: soldati stanchi e forse ubriachi stesi per terra, un odore acre di fumo e di vino e, seduto a un tavolo, il giovane comandante circondato da altri ufficiali. Nessun saluto al vescovo, il quale si avvicinò e con voce dimessa e accorata espose il motivo della sua visita: il Gabriotti era una persona rispettabilissima, un pluridecorato di guerra, un cittadino illustre e benefico. La sua scomparsa avrebbe creato una fortissima impressione in tutta la città. Il vescovo faceva vivo appello al senso di umanità pregando di sospendere ogni decisione affrettata. Il comandante ascoltava con aria distratta e misteriosa, senza dare risposta. Ma in quel momento avvenne una scena selvaggia: gli ufficiali della Milizia presenti, che avevano compreso la missione del vescovo, scattarono rabbiosi e furenti gridando: ‘Niente clemenza, il Gabriotti è il nostro primo nemico e deve essere giustiziato… Il vescovo non si interessi delle cose nostre’. A quelle grida il comandante pronunciò una semplice parola: ‘Vedremo’”.
Di quell’incontro lasciò una testimonianza diretta anche il vescovo: “Io allora mi misi a perorare la causa e vedendo che era impossibile chiedere tutto, chiesi che piuttosto che addivenire ad una esecuzione sommaria, lo avessero tradotto in Germania. L’ufficiale mi disse che dipendeva dall’alto e tradusse in tedesco la mia perorazione accorata e la mia richiesta. L’altro ufficiale che, a quanto mi dissero, era il vero giudice, rimase favorevolmente sorpreso da questa mia proposta e pronunciò in modo interrogativo: ‘Germania?’ Quindi, come se riflettesse: ‘Germania?’ Indi, in tono affermativo e deciso, disse: ‘Germania!’ Mi si sollevò subito il cuore, perché ebbi la certezza che l’ufficiale avesse aderito alla mia richiesta, che non mi sembrava affatto eccessiva. Senonché insorse un ufficiale italiano, che mi dissero poi essere lo Scotti Edoardo, il quale era lì insieme ad altro ufficiale, il sottotenente che poi mi dissero chiamarsi Caparvi Quintilio di Nocera Umbra, il quale alzando la voce contro di me, urlarono: ‘Il suo intervento è fuori luogo. Qui si deve fare giustizia! Se volessero fucilare me nessuno [si turberebbe]”. Anche l’altro ufficiale si associava, pure essendo meno energico. I due continuarono, fino a che il tenente tedesco mi voltò le spalle e l’altro, quello che parlava italiano, mi fece capire che non era il caso più di parlare. Io allora mi allontanai, pur non perdendo ogni speranza”.
Cipriani fece dunque ricadere sul tenente Scotti e sul sottotenente Caparvi la responsabilità del fallimento del tentativo di salvare la vita di Gabriotti. Nel suo interrogatorio al processo, Caparvi chiamò invece in causa il sotto-tenente Filippo Faro, che voleva vendicarsi su Gabriotti perché ferito dai partigiani nella battaglia di Villa Santinelli, e si dichiarò del tutto estraneo al fatto (“io mi trovavo alla parte opposta di un lungo tavolo e non intervenni affatto nella faccenda”).
Quando si allontanarono dal Collegio della GIL per tornare in vescovado, Cipriani e Pieggi avevano dunque ottenuto un solo risultato tangibile: lo spostamento del luogo dell’esecuzione dalla piazza principale alla campagna e una modalità non infamante della fucilazione: al petto invece che alla schiena.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.