Palazzo Vitelli a San Giacomo, allora sede della caserma dei carabinieri.

Il presunto tentativo di far evadere Gabriotti

Dopo la morte di Gabriotti si cominciò a insinuare che egli si sarebbe potuto salvare se solo avesse colto le opportunità offertegli per evadere dalla caserma dei carabinieri. Una ricostruzione dei fatti protrattasi fino ai giorni nostri, talvolta con commenti poco benevoli nei confronti di un uomo che – a dire di quanti argomentavano in tal senso – in fin dei conti si sarebbe lasciato ammazzare per la sua superficialità nell’affrontare una fase così rischiosa della sua esistenza.
L’insieme della documentazione permette ora di affrontare la questione senza pregiudizio alcuno. Anche perché la tesi che Gabriotti rifiutò di darsi alla fuga trovò accoglienza pure fra alcuni suoi famigliari, che comunque dettero plausibili spiegazioni per il suo comportamento. La sorella Assunta confidò: “Venanzio non è fuggito perché non si poteva fidare, poteva essere un tranello. Aveva paura che se scappava fuori avrebbe trovato qualcuno che lo avrebbe ammazzato lo stesso e sarebbe passato per vigliacco”. E la cugina Zola: “Non scappò perché ne avrebbero subito le conseguenze i nipoti, i fratelli e tutta la città”.
Giova a questo punto riesaminare con attenzione i quattro giorni e le quattro notti di prigionia di Gabriotti. Dalla mattina di venerdì 5 maggio alla mattina di domenica 7 maggio, mentre attendeva di essere interrogato, non avvenne nulla che potesse far temere per la sua vita. Lui pensò solo a inviare, tramite militi compiacenti, biglietti per tranquillizzare i famigliari, avvertire del pericolo i collaboratori e far sparire documenti compromettenti. Per quanto avesse sottovalutato il rischio dell’arresto, non si mostrò preoccupato per le sue conseguenze. Né esiste evidenza che i fascisti più moderati, o suoi amici, fossero seriamente allarmati per la sua sorte.
Lo scenario cambiò dopo l’interrogatorio del 7 maggio, quando la situazione di certo gli apparve ben più complessa di quanto Gabriotti avesse creduto. Tuttavia è verosimile che anche chi cercò di smascherare la sua attività clandestina – come il comandante del presidio Brighigna – non intendesse mettere a repentaglio la vita di un oppositore dal quale sperava invece di trarre informazioni utili per estendere le indagini.
Fu quindi domenica 8 maggio che le circostanze peggiorarono radicalmente, per l’arrivo dei tedeschi, il rastrellamento, il secondo interrogatorio di Gabriotti da parte degli ufficiali delle SS e la sua rapida condanna alla fucilazione. Probabilmente avvenne in quelle ore concitate quanto raccontato dal maresciallo dei carabinieri Emo Fiaschi. Sollecitato, a suo dire, anche da Brighigna, cercò di creare le condizioni per una fuga: “Allora io presi l’iniziativa di mettere il colonnello Gabriotti in condizioni di poter evadere e glielo dissi anche apertamente”. Fiaschi rimase sorpreso dalla risposta di Gabriotti: “Egli rifiutò di allontanarsi dicendomi: ‘Non ho nulla da temere, perché la mia coscienza è tranquilla; e se non sono fuggito in guerra di fronte ai nemici, non fuggirò neppure adesso!”. Questa è la ricostruzione dei fatti ritenuta più credibile dalla cugina Zola Gabriotti: “Icarabinieri andarono da lui e gli dissero ‘Le porte sono aperte, se vuole scappare vada via pure’”.
Bisogna però tener conto che, a partire dalla convulsa giornata dell’8 maggio, né i fascisti né i carabinieri avevano più un’apprezzabile libertà di azione. Era ai tedeschi, e alle SS, che dovevano rendere conto di quanto succedeva. Paiono dunque assai poco probabili comportamenti superficiali, indulgenti e lassisti per far fuggire di prigione un uomo condannato a morte da ufficiali tedeschi. Nel processo del dopoguerra parlò della ventilata evasione di Gabriotti solo il maresciallo Fiaschi, che pure non era accusato di niente; avrebbe potuto menar vanto di voler salvare il condannato anche qualche imputato fascista, per alleggerire la propria posizione processuale, ma accennò alla cosa solo Brighigna, sostenendo la versione di Fiaschi.
Resta il fatto che la lunga testimonianza di Alberto Ivano Nardi, scritta immediatamente dopo gli eventi, non fa alcun riferimento a opportunità di evasione nel giorno e nelle due notti che restarono insieme in cella. Nardi parla della disponibilità di qualche milite a portare fuori caserma comunicazioni scritte da Gabriotti; ma nel contempo sottolinea che nella notte dall’8 al 9 maggio la vigilanza in caserma si fece ben più severa.
Si sono già riferite le testimonianze di militi fascisti che si trovarono allora in caserma. Il sottufficiale Silvio Serafini fece capire a Gabriotti che avrebbe potuto aiutarlo ben più che semplicemente recapitando ai famigliari i suoi biglietti; ma la cosa finì lì. Anche Virgilio Gentili, che si mise a disposizione del prigioniero, affermò di non ricordare tentativi di farlo evadere. Altre testimonianze o appaiono troppo vaghe, oppure sono di seconda mano, cioè raccolgono confidenze o racconti di chi ha vantato un ruolo nella vicenda. Emblematico quanto ebbe a riferire il caporale della milizia Angelo Saloni: “Pietro Giornelli, che chiamavano “il nicchio”, mi disse che avevano procurato a Gabriotti una divisa della milizia perché la indossasse per scappare e che gli avevano lasciato aperto il portone che dà su piazza del Marchese Paolo. Avevano finto di chiuderlo ed avevano rimesso la chiave nella guardina dei carabinieri. Non so chi andò su al primo piano, per dirlo a Gabriotti. Ma lui non ne volle approfittare, anche perché c’era un altro in cella con lui”.
Per la loro stessa natura, l’attendibilità di queste testimonianze indirette è assai modesta. Rivelano spesso sovrapposizioni di racconti sedimentatisi nel tempo e si prestano a indebite amplificazioni e stravolgimenti, talora in buona fede, talaltra per interessi di parte.
A un altro retroscena sulla prigionia di Gabriotti avrebbe accennato Luigi Pillitu, primo sindaco tifernate del dopoguerra: “Ne parlai col Vescovo, gli dissi che se lo si voleva si poteva fare un’irruzione nel palazzo [in cui] c’erano una decina di tedeschi. Avevo l’intenzione di far venire una notte i partigiani di Pietralunga; ma ci furono dei dissensi: ‘Dopo i tedeschi si inaspriscono di più e potrebbero recar danno alla città’. Vi erano anche dei problemi di ordine militare”. Fece forse riferimento a tale piano don Vincenzo Pieggi quando affermò: “Ci fu un ventilato tentativo di farlo fuggire, ma poi di fronte alle difficoltà non successe nulla”. In realtà un’incursione del genere era impossibile. Dopo lo scontro a fuoco di Montone, i partigiani della “San Faustino” si erano ritirati nel Pietralunghese, dove furono colti di sorpresa dall’imponente rastrellamento tedesco dell’Appennino umbro-marchigiano iniziato proprio allora. La brigata si frammentò in diversi gruppi, la cui unica meta era sfuggire all’annientamento e rifugiarsi in luoghi più sicuri.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.