Risale ai primi anni ’50 una nota informativa riservata che apre uno squarcio sull’ambiente liberale e patriottico di Città di Castello. Lo componevano personaggi già attivi nel disciolto Circolo Popolare, i quali non sembravano affatto darsi per vinti: mantenevano un atteggiamento sprezzante, con “verbali insulti a danno degli affezionati al Governo Pontificio”; imbrattavano gli editti affissi dalle autorità civili e religiose; complottavano segretamente, ma si incontravano pure in pubblico, usando come espediente i giochi di scacchi e dama. Tra i segnalati vi erano personaggi autorevoli del Risorgimento tifernate: Ludovico Corbucci (“pessima persona, egualmente all’intera sua famiglia […] in stretta relazione colla perugina Demagogia”); i possidenti GioBatta Gnoni (“spenditore della Democrazia, e perché buon Sovventore, perciò annesso ai segreti settari”), GioBatta Signoretti, Antonio Beccherucci, Annibale Mancini e Orazio Alippi; gli artigiani Giosuè Trivelli, proprietario di una concia, Pietro Landini, sarto, e il pittore Giuseppe Bellucci; il caffettiere Gaetano Cherubini, il farmacista Luigi Vegni (“sempre demagogo”) e il notaio Vincenzo Baldeschi; i fratelli Giacomo e Luigi Ricci. Altri oppositori erano esiliati in Toscana: Giuseppe Bufalini a Firenze e Antonio Sediari a Montevarchi (da dove “spessissimo si reca nel territorio di Città di Castello per sorvegliare i suoi beni”). Risultava “fuggitivo”, ma non si sapeva dove, anche il medico condotto Camilletti.
Si trattava comunque di uno spaccato molto parziale della Città di Castello “italiana”, ostile al regime illiberale e teocratico pontificio. Mancano i nomi di alcuni dei “cospiratori” arrestati proprio in quel 1850, così come di chi – certamente Francesco Milanesi – era avvezzo alla lotta clandestina, operava nel segreto della propria congrega e riusciva quindi a restare nell’anonimato. E mancava quella gente di popolo che magari non tesseva le trame politiche dell’opposizione antigovernativa, ma tuttavia era pronta ad esporsi in prima persona per dare ad esse sostanza, sia che si trattasse di imbracciare il fucile, sia di ricorrere a strategie di lotta non violente.
In quegli anni non giungevano certo notizie incoraggianti dagli altri Stati italiani. Tra il 1852 e il 1855 patrioti finirono sul patibolo a Ferrara e, a più riprese, nella famigerata fortezza di Belfiore, a Mantova. Altri, come Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, si videro commutare in ergastolo la pena capitale. Altri ancora, tra cui Francesco Domenico Guerrazzi e Felice Orsini, furono costretti all’esilio. Le file mazziniane venivano decimate senza che i tentativi insurrezionali producessero risultati apprezzabili.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).