Manifesto di annuncio della restaurazione del governo pontificio.
Comunicazione ai tifernati della truppa di occupazione austriaca.
Divieto di indossare i cappelli “alla Garibalda” e “alla pazienza”.

Austriaci in città e repressione

Il 10 aprile 1850 una notificazione del commissario pontificio straordinario dell’Umbria e Sabina annunciava ai sudditi il ritorno di Pio IX in Vaticano. L’indomani anche un avviso del presidente della commissione municipale tifernate, Vincenzo Pierleoni, plaudiva al “sospirato” ritorno del papa “nella Capitale del Mondo Cattolico”.
All’inizio di luglio di quell’anno prendeva possesso della diocesi di Città di Castello il nuovo vescovo Letterio Turchi. Da Norcia, sua precedente sede, si era espresso in termini durissimi contro gli intenti innovatori della Repubblica Romana, “un Socialismo sovversivo di ogni ordine” che avrebbe saccheggiato le proprietà della Chiesa e umiliato i suoi ministri, facendo leva su “uno stolido popolaccio furente ed aizzato a mal fare”. Il vescovo invitò al pentimento i “fuorviati fratelli” che avevano aderito al “governo dello sterminio”, ammonendoli che pendeva sul loro capo “la spada inesorabile della giustizia eterna”.
La Città di Castello nella quale giunse Letterio Turchi era presidiata da circa 400 soldati austriaci. Per un paio di anni fu un via vai continuo di truppe, che impegnò non poco, anche in risorse finanziarie, gli amministratori locali, cui spettava l’onere di soddisfare ogni esigenza della guarnigione. In due circostanze giunsero pure generali austriaci, fra cui il comandante della piazza di Ancona, Pfanzelter. Quanti avevano sostenuto l’esperienza repubblicana dovettero subire l’onta di vedere la banda a ottoni municipale omaggiare gli illustri ospiti in “piazza di sopra”.
La forte presenza austriaca serviva per tenere sotto ferreo controllo l’ordine pubblico, compito che le ancora frastornate autorità pontificie non erano in grado di svolgere in piena autonomia. Significò dunque repressione. Portava la firma di un comandante austriaco il manifesto che rammentò alla popolazione l’assoluto divieto di “indossamento dei tricolori e di ogni altro tipo rivoluzionario” e di “cappelli detti alla Garibalda con una falda calata, e alla pazienza o colorati”. Si dettero appena 24 ore di tempo per uniformarsi al divieto. Evidentemente erano in molti a manifestare in pubblico la loro italianità indossando simboli nazionali o con vezzi di moda.
Vi fu il tentativo di decapitare l’opposizione imprigionandone gli esponenti più noti e non resisi irreperibili. Dalla fine di agosto del 1850 passarono cinque mesi di carcere, prima nella rocca di Umbertide, poi a Perugia, una ventina di tifernati, fra cui Filottete Corbucci, Luigi Bufalini, GioBatta Signoretti, Vincenzo Baldeschi, Vincenzo Celestini, Gaetano Cherubini, Antonio Montani, Settimio Lensi, Oderico Costarelli ed Eugenio Catrani. Il processo non ritenne l’accusa di cospirazione sufficientemente fondata per poterli condannare. Nel gennaio 1851 i patrioti tornarono in libertà. A pagare il prezzo più alto furono due altri liberali, Oderico Costarelli e Diofido Fidanza, rinchiusi per cinque anni nelle galere pontificie. Non si conoscono purtroppo le loro vicende processuali. Il possidente Costarelli fu arrestato perché trovato in possesso di un “carteggio coi demagoghi toscani”. Di Fidanza, massone e amico di Luigi Bufalini, si sarebbe detto che aveva fatto parte della Carboneria e che uscì di prigione in tempo per “vedere l’Italia quasi tutta redenta”. Morì a Perugia nel 1864.
Luigi Bonazzi, nella sua Storia di Perugia, rievoca un episodio della repressione successiva all’abbattimento della Repubblica Romana di cui fu vittima nel capoluogo un ragazzo tifernate: “Un giovine di Città di Castello, dopo brevissimo esame, fu introdotto libero e sciolto in mezzo al cerchio degli ufficiali, uno dei quali gli lesse la sua sentenza di morte. Lo sciagurato comprese la sua sorte dal contegno degli astanti; e muto, istupidito per l’annuncio improvviso, risalì macchinalmente le scale, che già avea gli occhi di vetro; e dopo mezz’ora fu fucilato avanti una siepe presso alla piazza dello Scozzone, sulla strada che mena a Fontiveggie”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).