Boicottaggio del fumo nel 1851: la “Mora” aggredisce un fumatore di sigaro in via San Florido (disegno di Ubaldo Mariucci, detto Baldino).
Obblighi di alloggio per soldati della guarnigione austriaca in città.

Il boicottaggio

Nella primavera del 1851, per colpire le entrate fiscali governative venne attuata su vasta scala un’azione di boicottaggio del gioco del lotto e del consumo di tabacco e di vestiario di importazione. Il medico tifernate Giuseppe Corsi così lo descrisse nel suo diario:
“Adì 24 maggio 1851. Vi è un concordato nelle Popolazioni Pontificie di non comprare i sigari da fumare, e ciò per non dare li utili al Governo, e già vedesi il ribasso dello smercio di detto genere – non solo non comprare sigari, ma non fumare tabacco, ne prenderlo per naso, come ancora di non giocare al lotto, e nemmeno vestire di panni esteri per non dare un utile al Governo”.
Il boicottaggio, attuato in forma assai combattiva anche localmente, colse nel segno e provocò subito misure repressive, alle quali concorsero i gendarmi pontifici e la truppa austriaca di stanza in città. Il dottor Corsi annotò l’arresto di una popolana:
“Qui in Città di Castello il di 27 Maggio 1851 una donna detta ‘la Mora’ in via di San Florido al Prato, stando in istrada e passando diversi che fumavano li sigari, essa li sgridò incutendogli timore di non dovere fumare, e di più ad un suo vicino gli disse che non doveva prendere tabacco per il naso, perché era una fare da briganti […] e che avesse aspettato di prenderlo quando in breve tornerà la Repubblica. La detta donna sull’istante fu carcerata.”
Non bastò la minaccia del carcere per fermare quella manifestazione di protesta. Il 6 giugno venne arrestata per aver strappato di bocca il sigaro a un giovane la nipote della ‘Mora’, Maria Picchi. Era moglie di un ex sergente romagnolo delle guardie pontificie di finanza, tal Biagi, che pare fosse – o fosse stato – membro della Carboneria. Condotta immediatamente a Perugia, subì la condanna a venti colpi di nerbate.
L’azione di boicottaggio comunque continuò in forma aspra a Città di Castello. Il 9 giugno, “per avere insultato li pacifici abitanti che fumavano li sigari”, finirono in carcere due giovani, tra cui il tamburino della banda a ottoni, e un fabbricante di chiodi. Quel giorno i gendarmi arrestarono per lo stesso motivo anche un uomo di Fano, di passaggio per la città: quando andarono a perquisire il suo alloggio, presso la locanda di Francesco Paladini – altro notorio patriota – vi trovarono “delli scritti incendiarii repubblicani”. Giuseppe Lupatelli e Mariano Lolli, due degli arrestati, furono puniti a Perugia, l’uno con 40 vergate nelle natiche, l’altro con 30 colpi di bastone.
Non si sa se vi siano stati altri episodi di boicottaggio. È probabile che la durezza della repressione abbia indotto ad abbandonare quel tipo di protesta. La sua ampia diffusione nel territorio dello Stato pontificio, e in zone geograficamente emarginate come l’Alta Valle del Tevere, rivelò che la circolazione di idee, per quanto ardua, non era del tutto impedita dalle difficoltà di comunicazione e dalle misure punitive. Di qui l’ulteriore intensificazione dei controlli esercitati dalla polizia. La delegazione apostolica perugina inviò il 10 marzo 1852 una circolare che ordinava una più severa repressione del trasporto abusivo di lettere, ricorrendo a perquisizioni di vetturali, carrettieri, postini e persino di viandanti a piedi sui quali si nutrivano sospetti.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).