I profughi nella valle. La comunità friulana di Umbertide

Profughi dalle zone investite dal conflitto arrivarono nell’Alta Valle del Tevere nella seconda metà di giugno 1915. Ne giunsero 44 a Umbertide, in gran parte provenienti da Monfalcone, e una ventina, triestini, a Città di Castello.

Una ricca documentazione d’archivio permette di gettare un po’ di luce sulla comunità di profughi che trovò rifugio a Umbertide per tutta la durata del conflitto. Il primo ottobre 1916 se ne censirono 42, tra cui 28 donne: 11 maschi su 14 erano minorenni. Sin dal loro arrivo il gruppo aveva già avuto al suo interno quattro nascite e altrettanti decessi

I profughi abbisognavano di tutto. Lo Stato provvide a rifornirli di scarpe, vestiario e stoffa per confezionarsi gli indumenti. Inoltre corrispose loro un sussidio, che dal primo luglio 1916 fu portato a una lira giornaliera senza distinzione di sesso e di età.

Agli enti locali spettava procurare gratuitamente gli ambienti e le suppellettili per l’alloggio. A Umbertide fu loro assegnato quello che si chiamò “Ricovero di Santa Maria”. Le disposizioni prefettizie imposero l’adozione di un rigoroso regolamento interno […].

La prefettura insistette anche perché si trovasse occupazione per i profughi in grado di lavorare. Però pochi di essi possedevano competenze professionali spendibili. Nel 1917 risultavano del tutto abili al lavoro cinque maschi, tre dei quali manovali, uno arrotino e uno falegname; venivano considerate “mediocremente abili” al lavoro 14 donne, ma due dovevano badare ai bambini e quattro erano casalinghe: le altre avevano avuto esperienze come operaie di cotonificio, domestiche e sarte. Alla fine otto vennero impegnate in lavori di cucito, anche di indumenti per la loro comunità con stoffa messa a disposizione dallo Stato. Per gli uomini non si trovarono che lavori di sterro.

La sconfitta di Caporetto e l’invasione del Friuli e del Veneto provocarono una nuova e più massiccia ondata di profughi. La capacità ricettiva dell’Alta Valle del Tevere era stata però fortemente ridimensionata dal sisma del 26 aprile 1917. Un gruppo di oltre un centinaio di friulani provenienti dalla valle del Natisone si sistemò a Pieve Santo Stefano, che non aveva subito danni per il terremoto. Facevano parte della comunità alcuni maestri e sacerdoti, che contribuirono a mantenerne la compattezza e l’identità. Il forte legame tra di essi portò – nel ricordo di Amintore Fanfani – alla formazione in paese di “una specie di isola demografica”, provocando “un delicato problema di relazioni” con i pievani. Poi, per la buona volontà di tutti, la diffidenza si stemperò.

Un consistente gruppo di profughi venne concentrato anche a Sansepolcro. Un’idea di quanti fossero l’offre il telegramma inviato all’inizio del 1918 dal commissario Stagni al prefetto: urgevano per i rifugiati 8 paia di scarpe per uomini, 25 per donne e 30 per ragazzi.

Due gruppi famigliari del Trevigiano, diretti al centro di raccolta di Gubbio, si fermarono in territorio sangiustinese, a Celalba.

Non si hanno notizie precise sul numero di profughi rifugiati a Città di Castello. Il 27 novembre 1917 si costituì una apposita commissione comunale di assistenza. Una ventina di bambini trovarono ospitalità nell’Ospizio Sacro Cuore. Per ospitare fanciulli derelitti delle zone d’Italia cadute in mano agli austro-ungarici, a Città di Castello sorse la Colonia dei Giovani Lavoratori “Paterna Domus”, ideata dal veneziano David Levi Morenos. Si insediò nei locali dell’ex Pellagrosario, nel sobborgo orientale del Gorgone. Vennero inizialmente gli orfani della Casa Paterna sfollati da San Donà del Piave; poi adolescenti fra i 9 e i 14 anni delle province di Belluno e Udine che avevano perduto i genitori nei giorni della caotica fuga dalle terre invase. Annesso alla “Paterna Domus” vi era un podere per le esercitazioni agricole, dove i ragazzi venivano addestrati a quell’attività lavorativa alla quale sarebbero tornati dopo la guerra. Il primo settembre 1918 l’istituto divenne operativo con 70 giovani ospiti.