Dorando Pietro Brighigna

L’ordine di arresto

Per ricostruire al dettaglio gli avvenimenti successivi assume cruciale importanza la documentazione processuale. Nell’immediato dopoguerra, infatti, furono inquisiti i fascisti implicati nei fatti di sangue avvenuti nel territorio altotiberino umbro dal 27 marzo all’11 maggio 1944: le fucilazioni di nove partigiani a Villa Santinelli di San Pietro a Monte, di Gabriotti a Città di Castello e di quattro giovani renitenti tifernati a Castelguelfo e Caizingari di Pietralunga. Il procedimento si celebrò presso il Tribunale Militare Territoriale di Firenze, dopo una lunga fase istruttoria svoltasi anche a Città di Castello e Perugia, e permise di raccogliere le testimonianze di gran parte dei protagonisti degli eventi, inclusi diversi fascisti che allora si trovavano in stato di detenzione.
È accertato che la sera del 3 maggio Venanzio Gabriotti si recò a Ronti, nella valle del Nestoro, insieme ad Aldo Bologni e a Giuseppe Nicasi per incontrare Siro Rosseti, il comandante militare della brigata partigiana garibaldina “Pio Borri”. A tale formazione, che operava sull’Appennino aretino, si erano aggregate le tre bande di partigiani altotiberini operanti a occidente del Tevere nei comuni di Città di Castello e Monte Santa Maria Tiberina. Giuseppe Nicasi era di Morra, dove gravitava uno dei tre gruppi, composto prevalentemente di tifernati. Gabriotti dunque perseguiva il disegno strategico di raccordare nell’Alta Valle del Tevere la Resistenza armata attiva tra l’Appennino umbro-toscano e quello umbro-marchigiano.
Questa la testimonianza di Nicasi: “Per non farci vedere partire insieme da Città di Castello, ci demmo appuntamento per le ore 20 circa al ponte che si trova un centinaio di metri oltre la località Palazzo di Carlo. Attendemmo nel fosso del ponte che si facesse scuro. Verso l’imbrunire ci mettemmo in viaggio con le nostre biciclette. Ma, fatti i primi 20 metri, malauguratamente incontrammo il fascista repubblichino Mario Tellarini con la moglie che, in bicicletta, venivano alla volta di Città di Castello”.
Tellarini, ragioniere capo in Comune, era un noto gerarca locale; segretario politico del Fascio di Città di Castello dal giugno 1929 all’ottobre 1935, aveva aderito al fascismo repubblicano, senza però assumere incarichi politici.
Il sospetto che fosse stato lui a segnalare alle autorità di polizia l’insolito viaggio serale dei tre antifascisti lo ebbe lo stesso Gabriotti. In uno dei biglietti fatti recapitare dal carcere a persone fidate avrebbe scritto: “Tellarini ha parlato, ad ogni modo io ho negato di essere stato insieme al Nicasi ed al Bologni. Avvisare Nicasi di dire che assolutamente non era con me”.
Si diffuse quindi il “generale convincimento” che all’origine dell’arresto di Gabriotti ci fosse stata la denuncia di Tellarini. Ma egli avrebbe rigettato ogni accusa: “Non potevo essere io il delatore del Gabriotti, del quale ero amico di famiglia da molti anni”. Certo è che nel dopoguerra il Tellarini, dopo aver subito un temporaneo provvedimento di rimozione dal posto di lavoro in Comune, fu subito riassunto, essendogli stati riconosciuti sia un comportamento moderato come gerarca del fascismo, sia una condotta irreprensibile come funzionario municipale.
Altro fatto accertato è che la mattina del 4 maggio l’avv. Donino Donini, personalità fortemente radicata nell’ambiente cattolico tifernate ed esponente del Comitato Clandestino di Soccorso, ricevette una soffiata sull’imminente arresto di Gabriotti e si affrettò a metterlo in guardia: “Il giorno precedente l’arresto del Gabriotti fui avvertito da persona amica, che vi era ordine di arrestare Gabriotti, perché questi non era ancora ritornato in città, essendosi la sera avanti recato nella frazione di Morra per conferire con i partigiani. Circa le ore 12.30, mi recai al suo ufficio insieme con Bistoni Osvaldo e gli comunicai quanto sapevo. Egli sorrise, dicendo che non vi era motivo plausibile per un ordine di cattura e, comunque, aggiunse che essendo egli ufficiale non poteva scappare, ma sarebbe rimasto sul posto”.
Era allora comandante del presidio di Città di Castello della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) il tenente Dorando Pietro Brighigna. Proprio il 3 maggio ottenne una licenza di convalescenza di 20 giorni, ma restò al suo posto in attesa di essere sostituito dal sotto-tenente Biagio Giombini, studente ventitreenne nato a Umbertide e allora residente a Monte Santa Maria Tiberina. La testimonianza di Brighigna da un lato chiama in causa i tedeschi, dall’altro cerca di avvalorare un suo tentativo di temporeggiare, nella speranza che qualche milite amico di Gabriotti gli rivelasse il rischio cui stava andando incontro: “Mi lasciarono i tedeschi ordine scritto per l’arresto di Gabriotti in tono perentorio. Cercai di tergiversare, e per non assumermi direttamente la responsabilità di avvertire il Gabriotti del pericolo che correva, lasciai per tre giorni l’ordine stesso sul mio scrittoio, sperando che qualche amico del Gabriotti lo rendesse edotto. Senonché due ufficiali tedeschi tornarono da me seriamente minacciandomi se non avessi proceduto all’arresto e rifiutandosi di accogliere le mie obiezioni che il Gabriotti risultava irreperibile. Consegnai alfine l’ordine ai carabinieri, che procedettero purtroppo all’arresto, forse senza nessuna opposizione dello stesso Gabriotti, che si riteneva sicuro di non dover subire estreme conseguenze. All’epoca dell’arresto ancora il Giombini, giunto proprio quel giorno, non aveva preso le consegne dell’ufficio, così toccò a me ottemperare all’ordine delle SS tedesche”.
Anche il maresciallo dei carabinieri Emo Fiaschi testimoniò che l’ordine di arresto di Gabriotti era stato dato dai tedeschi, “i quali tedeschi erano venuti a conoscenza che il predetto teneva intelligenza con i partigiani della zona”.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.