Venanzio Gabriotti durante il periodo bellico.
Gabriotti con alcuni nipoti.

Coraggio e imprudenza

Intanto le autorità politiche e militari del regime fascista sentivano sempre più minacciosa la pressione dei “ribelli”. Il commissario prefettizio di Città di Castello e segretario politico del Fascio Repubblicano, Orazio Puletti, comunicò al capo della Provincia Armando Rocchi che la situazione dell’ordine pubblico rischiava di sfuggire di mano. Non solo stavano aumentando di numero e di pericolosità le azioni partigiane; addirittura nella notte dal 22 al 23 aprile erano stati affissi nella piazza principale dei “manifestini sovversivi”. Gli organi di polizia cominciarono dunque a stringere la vigilanza sugli oppositori più temuti. Gabriotti sapeva di essere nel mirino dei fascisti. Aveva dei buoni amici anche tra di loro e qualcosa gli era giunto all’orecchio. Il 26 aprile, giorno del suo compleanno, scrisse nel diario: “Ho notizia che il 1° maggio dovrei essere arrestato per motivi precauzionali!!”.
Tuttavia non ebbe la percezione di correre seri rischi. Alla base del suo modo di fare, vi era una forte fede cristiana. “Credeva fermamente nella Divina Provvidenza” – ricordava il nipote Giulio Ciliberti – “Mi diceva: ‘Non ho paura di rischiare; l’ho fatto tante volte e c’è stata sempre una mano che m’ha tratto fuori dai guai… Questa mano continuerà ad aiutarmi nei momenti di pericolo’”. Forse per tale intima convinzione, oltre ché per l’innato coraggio e per il sentirsi protetto dalla fama di persona generosa e benvoluta, Gabriotti finì con il comportarsi in modo imprudente nell’attività clandestina, senza adottare le dovute precauzioni.
Raccontò il sacerdote Pietro Fiordelli, che spesso frequentava Gabriotti in vescovado: “Era un antifascista notorio. Però, per quel suo modo di fare sereno, scherzoso, penso che nessuno volesse fargli davvero del male. Ma ci furono alcune avvisaglie. In curia raccontava tutto delle sue visite ai partigiani. Più di una volta gli dissi: ‘Cavaliere, con me può dire tutto, ma con altre persone stia attento; vedrà che un giorno o l’altro qualcuno capta qualcosa’. E lui, spregiudicato: ‘Ma sì, me la caverò’”.Dello stesso tenore la testimonianza di un altro sacerdote, don Rolando Magnani: “Portai della frutta a casa dell’avv. Quartara, che stava morendo. Ci trovai Gabriotti che stava raccontando tutte le sue avventure con i partigiani. Lo presi da parte e lo rimproverai: ‘Ma lei va raccontando queste cose davanti a dei testimoni?’”.
Il comportamento sin troppo audace di Gabriotti è attestato anche da personaggi molto autorevoli all’epoca. Amedeo Corsi, podestà di Città di Castello fino al luglio 1944, cercò di avvertirlo, bonariamente, del pericolo incombente: “Gli dissi: ‘Vattene, Venanzio, che qui tuona…’. Mi rispose: ‘Un bel morir tutta la vita onora!’”. E il generale Vito Corsi: “All’epoca mi trovavo a Città di Castello. Lo vidi due giorni prima del suo arresto di fronte al Cinema Eden. Parlammo e mi salutò, dicendo sfacciatamente che voleva andare ad ascoltare Radio Londra”.
Secondo Alvaro Sarteanesi, allora sotto-tenente della milizia e per breve tempo vice-segretario del Fascio Repubblicano tifernate, Gabriotti sottovalutò gli espliciti richiami dei gerarchi locali: “Noi sapevamo che aveva contatti con i partigiani e lo ammonimmo convocandolo nella nostra sede. Agli incontri ero presente. Ci si conosceva. Orazio Puletti gli dava del tu: ‘Smetti di andare su, ci metti nei pasticci, ci possono essere conseguenze gravi’. Ma non ci stette ad ascoltare, nemmeno negò recisamente gli addebiti, si mostrò evasivo. […] Insomma si cercò di dissuaderlo per evitare a lui e a noi dei problemi. […] Lo chiamammo due o tre volte, non ci dette retta”. […]
Gabriotti si portò dietro da Pietralunga una grande gioia per l’esito assai soddisfacente dei contatti avuti. Nelle sue memorie di quel periodo, l’avv. Giulio Pierangeli scrisse che Gabriotti tornò “pienamente soddisfatto”, per essere riuscito a spingere a una azione concorde le bande umbre e marchigiane e per aver constatato che la “San Faustino” di Stelio Pierangeli – e ciò certo gratificò anche il padre Giulio – era un gruppo “bene organizzato e disciplinato, […] gradito a tutta la popolazione della zona per la correttezza scrupolosa”.

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.