Un’altra vittima: Primo Tacchini

Il ragazzo ritratto dalla foto è Primo Tacchini, un’altra vittima tifernate della deportazione di civili come “schiavi di Hitler” in Germania nella primavera del 1944.
Non è citato nel mio recente volume “Deportati. Dall’Alta Valle del Tevere ai lager nazisti”, in quanto la sua vicenda non mi era nota, benché, paradossalmente, si tratti di un mio lontano parente. Nei documenti ufficiali figura come “internato”, deceduto nell’ospedale militare di Verona il 14 maggio 1945: siccome il termine “internato” si usa generalmente per i militari imprigionati in Germania e Primo è morto in un ospedale militare, ritenevo che fosse uno di loro. Inoltre nessuno dei sopravvissuti tifernati e umbertidesi da me intervistati si ricordava di un Primo Tacchini nei lager di Kahla, in Germania.
Infatti la vicenda di questo giovane – aveva allora 18 anni – ebbe uno sviluppo diverso da quella da quella degli altri deportati. Abitava alla Vitellesca, presso Belvedere. Faceva il contadino e una mattina di quell’inizio di maggio 1944 andò alla macchia a tagliare la legna, con il padre e alcuni vicini. Tedeschi e fascisti lo rastrellarono lì, insieme a un altro giovane, Dario Mencagli, poi rilasciato per le precarie condizioni di salute. Sospettarono che fossero partigiani, benché non avessero per “arma” che una roncola per fare legna. Tra i fascisti c’era un giovane, a suo tempo amico di scuola di Primo, che non fece niente per aiutarlo.
I rastrellati di quella zona furono ammassati al santuario di Belvedere, poi uniti a quelli di Città di Castello e trasportati a Perugia. Quindi li caricarono sul treno-bestiame per la Germania.
È da quel momento che si perdono le tracce di Primo. La sorella Rita ricorda che in famiglia non si sapeva dove fosse. Inviò due cartoline postali; e questo conferma che non era con gli altri tifernati, i quali non poterono mai scrivere a casa. Le due cartoline sono andate purtroppo perdute e ciò impedisce di sapere in quale lager o località Primo fosse detenuto. In una di esse si scusò con la mamma per essere stato costretto, per la fame, a cambiare un caro ricordo di famiglia – un orologio d’argento – con un chilo di pane.
Il 26 luglio 1945 il padre Luigi venne a sapere che un Primo Tacchini o Taschini era deceduto all’ospedale militare di Verona. I dati anagrafici, purtroppo, coincidevano con quelli di suo figlio. Volle comunque sincerarsi. Con mezzi di fortuna riuscì faticosamente a raggiungere la città veneta. Trovò una situazione caotica. L’ospedale aveva subito un bombardamento e non si trovavano più documenti. Luigi riuscì a rintracciare in un convento la suora che assisteva i degenti dell’ospedale. Non solo si ricordava di Primo, ma riuscì anche a ritrovare la cartella clinica. Luigi venne così a sapere che il figlio, dopo la liberazione in Germania, era ridotto in condizioni pietose: pesava 32 chili. All’ospedale di Verona riuscì comunque a riprendersi, tanto che i sanitari ritennero di poterlo dimettere. La mattina del 14 maggio il dottore glie lo comunicò: “Tacchini, puoi tornare a casa”. Primo fu percorso da una irrefrenabile eccitazione. Quella gioia prorompente gli fu fatale: due ore dopo il dottore lo trovò disteso sul letto, senza vita. Non gli aveva retto il cuore.
Qualche mese dopo Luigi tornò a Verona per riprendere la salma del figlio. Fece riaprire la bara per essere sicuro che fosse proprio lui. Lo avevano sepolto rivestendolo con una specie di saio marrone. Il corpo era ancora intatto, ma il viso appariva un po’ sfigurato per la perdita dei capelli sulla fronte. Allora Luigi scoprì le gambe del cadavere e riconobbe il figlio da una cicatrice sulla gamba. Gli cambiò la bara e lo riportò a Città di Castello.
La cittadinanza contribuì con una raccolta di fondi alla traslazione della salma in città. Il 5 settembre 1945 vi fu un solenne servizio religioso in duomo alla memoria delle vittime civili nei lager nazisti: Armando Polpettini, Cesare Falleri, Ivreo Giuseppini e Primo Tacchini.