Leopoldo Franchetti in Africa. Nella prima foto, Ugo Patrizi.

Ugo Patrizi, Leopoldo Franchetti e i socialisti

Per quanto, durante la guerra, la vita politica fosse limitata e condizionata dal richiamo alle armi di numerosi dirigenti delle organizzazioni partitiche e sindacali, dalla censura sulla stampa e dal divieto di promuovere manifestazioni di protesta, tuttavia il confronto sulle idee rimase intenso, spesso acceso sui temi più controversi. I problemi del vivere quotidiano e lo stesso conflitto offrirono costantemente spunti per aspre polemiche. Nel rileggere la storia di quegli anni non si scorgono che rare tracce dello spirito di concordia nazionale e di superamento degli steccati ideologici auspicato da chi riteneva la vittoria militare l’obbiettivo essenziale, al quale tutto subordinare.

Lo scontro si manifestò in forme più vigorose a Città di Castello, anche per il continuo contraddittorio fra “La Rivendicazione”, “Voce di Popolo” e “Il Dovere”. Gli attacchi all’on. Ugo Patrizi da parte dei sostenitori della guerra crebbero di violenza nel 1916. “Il Dovere” l’accusò di “continua latitanza dalle manifestazioni di italianità” e, ancor peggio, di ispirare “un centro di infezione tedesca” che insinuava malignità sulla capacità bellica dell’Italia, diffondeva pessimismo e minava il morale della popolazione. Gli imputò di essere “tutto preso dalle minute quisquiglie dei corridoi parlamentari”, di incarnare una pratica politica ancora di stampo giolittiano, opportunistica, priva di idealità e di quel senso di sacrificio che avrebbe dovuto indurlo a mettere a tacere dubbi e critiche.

Per quanto non rinnegasse affatto le precedenti convinzioni neutraliste, il deputato radicale aveva ormai accettato la guerra come un fatto compiuto e auspicava la vittoria contro “il secolare nemico che – affermò – ci odia con la ferocia della sua razza barbara”. Inoltre si dedicava con impegno alle iniziative che potevano alleviare le condizioni di precarietà degli altotiberini e ritenne il gruppo de “Il Dovere” responsabile dell’ostilità preconcetta che gli impediva di rendersi ancora più utile. In una lettera al “Giornale d’Italia”, dichiarò che, pur sottomettendosi ai “gravosi doveri della disciplina”, avrebbe mantenuto quella libertà di giudizio che, proprio per il suo ruolo di parlamentare, gli si imponeva.

Inviso agli interventisti, Patrizi non trovò comprensione nemmeno sull’altra sponda, tra quei socialisti con i quali aveva condiviso la posizione neutralista. Non gli perdonarono mai di aver votato l’incondizionata fiducia al governo il 24 maggio 1915 e gli riservarono giudizi impietosi: “ogni battaglia lo trova disorientato ed incerto sulla via migliore da seguire […] la sua opera non è vivificata d alcuna fede in alcun principio politico: dice di essere radicale, ma nessuno ci crede […] scaprioleggia da una parte all’altra; è mellifluo come una femina innamorata; è indefinibile, insomma.

Anche se bersaglio privilegiato degli interventisti, Patrizi non era l’unico a subirne gli strali. “Il Dovere” ebbe modo di criticare i canonici del duomo di Città di eCastello, perché nelle funzioni religiose invocavano la pace e non la vittoria, e i socialisti, perché speravano in una conclusione per vie diplomatiche della guerra e diventavano così “i più caldi difensori degli interessi e della barbarie teutonica”; mise sul banco degli accusati anche i maestri, troppo influenzati dai socialisti e rei di non dedicarsi con il dovuto vigore all’educazione nazionalista e al sostegno della lotta armata; e infine la borghesia, refrattaria a ogni sacrificio nella valle, come in quasi tutto il paese: “Tanti e tanti a cagione della guerra hanno fatto lauti guadagni, vendendo i prodotti agricoli o le merci loro a prezzi inauditi, e che nessuno in tempi normali avrebbe potuto prevedere; ma pochi si sono degnati di versare almeno una parte del super-guadagno per aiutare chi della guerra risente solo i danni. Anzi ad ascoltarli sono essi – poveretti! – i maggiori colpiti”.

La redazione de “Il Dovere” s’accorse presto di aver seminato tanti rancori da sentirsi isolata. Ciò nonostante non demorse e si rese autonoma dal Comitato di Assistenza Civile proprio per poter esprimere con assoluta libertà le sue critiche.

In un clima di tutti contro tutti, i socialisti marchiarono come “massoni o massonizzati” i redattori de “Il Dovere”, additandolo al pubblico disprezzo come “organo degli imboscati castellani”. E continuarono a punzecchiare i repubblicani, a loro dire “un partito ormai ridotto al lumicino”. Né si svelenirono i rapporti tra socialisti e cattolici. La triste realtà della guerra parve confermare agli uni l’incapacità della religione di produrre pace e giustizia in terra, agli altri l’infondatezza del loro internazionalismo e delle loro promesse di un mondo migliore. E se lo rinfacciarono di continuo, sfruttando ogni minima occasione per smascherare le altrui contraddizioni e debolezze.

Nel 1917 entrò nella polemica politica altotiberina anche il senatore liberal-monarchico Leopoldo Franchetti. Patrizi si trovò così di fronte un avversario in più, peraltro di grande autorevolezza. Franchetti nutriva convinzioni nazionaliste. In una conferenza a Firenze sostenne che l’Italia doveva prefiggersi, oltre alla liberazione delle terre irredente, “il predominio militare nell’Adriatico non esclusovi il possesso vero della Dalmazia; inoltre la ricostituzione dell’Africa Orientale, un più ampio respiro a sud della Tripolitania, un possesso nell’Asia minore soddisfacente le sue legittime ambizioni”. Avrebbe anche auspicato, con la vittoria, un’espansione della presenza italiana nella penisola balcanica “e attraverso ad essa in Russia e in Romania”.

La tensione politica raggiunse il culmine tra il settembre e l’ottobre del 1917. Patrizi ammise di essersi trovato “in coincidenza di convincimento con il partito socialista ufficiale” riguardo alla guerra e denunciò quel coacervo di interessi economici che stavano costringendo l’umanità al “più terribile sagrifizio espiatorio, che mente di tiranno abbia mai immaginato!”. Affermò di condividere appieno la “sintesi lucidissima” degli avvenimenti esposta da Giolitti in un discorso a Cuneo e invitò tutti a rispondere con onestà dei propri atti al Paese “nel periodo più difficile e terribile della storia del mondo” 1.

La lettera provocò reazioni indignate da parte de “Il Dovere” e dei repubblicani. L’“Unione liberale” lo definì “tedescofilo accanito”. Patrizi si trovò del tutto isolato. Presero ulteriormente le distanze da lui pure i socialisti, contestandogli di aver criticato la guerra solo in privato, mentre avrebbe dovuto avere il coraggio di condannarla in Parlamento. Il 22 ottobre 1917 la direzione nazionale radicale lo espulse per aver professato idee “in fondamentale contrasto con i principi e le direttive” del partito.

1 “La Rivendicazione”, 1° settembre 1917. Patrizi aveva inviato la lettera da Roma il 29 agosto.