Luigi Spallacci all’epoca, tra Ivan Teobaldelli ed Enzo Rossi.
Don Achille Rossi in un campo di lavoro.
Don Giovanni Tornesi
Don Paolino Trani
Il centro di raccolta del campo di lavoro, nell'ex campo sportivo del seminario.

Testimonianze (1): il mondo cattolico

Don Achille Rossi

Parroco di San Pio dal 1963, quando aveva 23 anni.

Si rileggeva l’enciclica “Populorum Progressio” di Paolo VI (26 marzo 1967) con una attenzione rivolta alla realtà, soprattutto del Terzo Mondo e dei poveri. L’estensore principale era stato padre Lebret, un domenicano francese che conosceva bene la situazione del Terzo Mondo.

Inizialmente i nostri giovani si misero a costruire confezioni di cartotecnica per la FISA, in modo da devolvere quanto guadagnato per i poveri; si andava a casa di Gabriele Tasegian; sempre nello spirito della “Populorum Progressio”.

C’era una sensibilità verso il problema che si stava sviluppando nel lavoro parrocchiale. Si facevano in chiesa mostre con cartelloni di foto e didascalie sui problemi della povertà, montati su pannelli.

Poi andammo a vedere un campo di lavoro dell’Abbè Pierre(1912-2007) a Parma e mutuammo l’idea di portare quella esperienza a Castello. L’idea dell’Abbè Pierre, dei “chiffonnier”, era quella di ricavare fondi a favore dei poveri con i rifiuti della società del benessere.  Però la interpretammo in senso più “politico”: va bene aiutare i poveri, ma bisogna anche rimuovere le cause della povertà. Quindi i campi di lavoro avrebbero sì dovuto raccogliere quanto gettato via dalla società del benessere per ricavarne fondi per progetti per il Terzo Mondo; però dovevano anche servire a far crescere la consapevolezza che la povertà dei paesi del Terzo Mondo dipendeva dallo sfruttamento al quale erano soggetti; quindi bisognava operare per rimuovere gli impedimenti politici ed economici al loro sviluppo.

I Giovani per il Terzo Mondo nacquero in concomitanza con il primo campo di lavoro dell’estate 1968. La sede fu al Seminario. La mattina alle 7.30 c’era la messa per che voleva; alle 8.30 cominciava il lavoro; la sera riflessione in gruppo sulle tematiche del Terzo Mondo.

Il primo campo fu straordinario per il numero di giovani che aderirono, per la quantità di materiale che si raccolse, per l’entusiasmo anche della popolazione. I ragazzi la mattina partivano in bicicletta e con i carretti. Si svuotarono tante di quelle soffitte…

L’iniziativa partì dalle parrocchie di San Pio e di San Domenico, e vi aderirono anche giovani di altre parrocchie. Insieme a me e a don Paolino (dal 1965 a San Domenico) c’era don Pietro Bartolini, parroco delle Carpini. Lui era stato in Africa con un medico e aveva toccato con mano le condizioni di miseria del Terzo Mondo.

Don Giovanni Torresi venne dopo. Ci fu vicino don Luigi Spallacci, che stava a San Giovanni in Campo. Il gruppo di don Marino e don Nazzareno, la Gioventù Studentesca, era sensibile alle tematiche, ma era un’altra cosa. Don Vincenzo Pieggi, che era anche vicario, simpatizzava per noi.

Giovani laici che ricordo nel gruppo iniziale dei Giovani per il Terzo Mondo: Graziano Conti (che teneva i conti e i rapporti con gli acquirenti del materiale raccolto), Franco Ponti (che nei campi di lavoro faceva il lavoro più ingrato di star dietro alla disciplina, ai no da dire); Flavio Bravi, Franco Ciliberti, Rossella Mercati, Paolo Signorelli, Antonio Guerrini…

Il beneficiario dei fondi che raccogliemmo fu Padre Olimpio. Era stato seminarista con noi; poi nel 1962 era andato in missione con i padri comboniani in Equador. Eravamo rimasti in contatto con lui e lo voleva aiutare nell’opera missionaria.

 

 

Don Pietro Bartolini

Classe 1937, già parroco di Carpini, ora di Montone

Ho portato un po’ di esperienza pratica alla fondazione dei Giovani per il Terzo Mondo. Nel 1967, a 30 anni, ero parroco a Carpini; una maestra mi mise in contatto con l’ambiente cattolico di Rimini, dove venne organizzato quello che credo sia il primo campo di lavoro internazionale in Italia della Comunità di Emmaus. Ci andai con i miei ragazzi di Carpini. Mantenni il rapporto con la comunità anche nei mesi successivi.

Riproponemmo l’esperienza del campo di lavoro a Castello l’anno successivo, insieme a don Paolino e don Achille.

Nel 1969 portai l’abbè Pierre a Castello, al Cinema Eden. Intanto avevo preso contatto con un medico impegnato a favore dell’Africa e con lui andai tre mesi a Gulu, in Uganda.

Inizialmente Emmaus aveva lo scopo di aiutare le persone povere in Francia, dopo la guerra; mirava a coinvolgere la gente povera e in crisi per aiutare chi era più disgraziata di loro.

Successivamente sono diventato prete lavoratore, ho rinunciato alla congrua, per 25 anni.

 

 

Don Paolino Trani

Il primo campo di lavoro dei “Giovani per il Terzo Mondo” fu promosso dai due gruppi parrocchiali di San Domenico e di San Pio. Vi si aggregarono anche giovani di altre parrocchie e della Gioventù Studentesca di don Marino Bacchi. La sede di raccolta fu al seminario.

Vi fu successivamente una rappresentazione teatrale in piazza di sotto, insieme al Teatro dei ’90, che condannava i due imperialismi, americano e sovietico. Ma non ricordo se fu prima o dopo la contestazione della Croce Rossa.

Alla contestazione fui presente, ma solo come osservatore. Non partecipai a incontri organizzativi. C’erano sicuramente dei giovani dei nostri gruppi parrocchiali. L’enciclica “Pacem in Terris” (11 aprile 1963) aveva prodotto un cambio di prospettiva del mondo cattolico.

Difficile trovare una città con tanti fermenti come Castello allora.

 

 

Luigi Spallacci

C’ero anch’io alla manifestazione la sera dell’11 gennaio 1969. Con me per la parrocchia di San Domenico c’era anche don Paolino, che allora era vice parroco di mons. Vincenzo Pieggi. Io ero solo collaboratore, dopo “l’esilio” di 2 anni a Pitigliano di Lama. Io non ho mai fatto parte di “Mani Tese” o di “Giovani per il Terzo mondo”, ma ne condividevo lo spirito e la prassi. Dopo un incontro con l’Abbè Pierre a Parma avevo capito quanto fosse importante, per una società orientata verso l’opulenza, aiutare i più poveri con quello che i ricchi o comunque i meglio sistemati buttavano via.

Questa visione delle cose mi portò a condividere lo spirito della contestazione al ballo di… beneficenza organizzato dalla Croce Rossa: non si aiutano i più poveri divertendosi. Non nego che oggi la motivazione mi appare un po’ moralistica; allora però la condividevo totalmente.

Tuttavia in me c’era anche un altro motivo per essere pacificamente presente alla manifestazione: evitare che essa degenerasse in forme non dico violente, ma poco congrue con una realtà paesana che comunque avrebbe dovuto rispettare la libertà di tutti. Eravamo convinti, credo che anche don Paolino lo fosse, che la nostra presenza avrebbe evitato il peggio. Questa preoccupazione nasceva anche dal fatto che qualche tempo prima alla Capannina erano successe cose spiacevoli. Questo noi volevamo evitarlo per il rifiuto in sé di ogni forma di violenza ed anche per il fatto che tra gli organizzatori del ballo di beneficenza c’erano persone vicine all’ambiente parrocchiale e comunque degne di rispetto come ad esempio, se ricordo bene, la sig.ra Montemaggi, in quanto esponente della Croce Rossa.

Io non era contrario al ballo, mi appariva invece ipocrita la motivazione, cioè la beneficenza come scopo della iniziativa. Naturalmente la presenza di sacerdoti fu molto criticata dall’opinione pubblica benpensante. Forse non eravamo riusciti a far capire le nostre vere intenzioni.

A proposito di contestazione studentesca vorrei ricordare anche due fatti: il primo, la messa a disposizione del ciclostile della parrocchia San Domenico per gli studenti che organizzavano volantinaggi. L’altro episodio invece è legato ad una iniziativa presa da noi preti “giovani” di Castello dando vita ad una pubblicazione dal titolo “Lettera’70”. Ricordo che io stesso scrissi la presentazione del primo numero usando questa espressione: “questa iniziativa nasce dalla constatazione ecc… ecc…”. Eliana Pirazzoli, corrispondente del “Messaggero”, lesse (non so se in buona fede o no) contestazione e scrisse un articolo molto critico nei nostri confronti. Metteva in guardia le famiglie dall’affidarci i loro figli: “Pensate in quale mani affidate i vostri figli”. Questo articolo mi ferì moltissimo per diversi motivi: un errore di lettura del mio articolo, il fatto che la Pirazzoli in passato aveva dimostrato amicizia e stima nei miei confronti ed infine la messa in discussione della capacità educativa del nostro lavoro di sacerdoti.

Come vedi il mio ruolo è stato marginale, ma ho sempre avuto simpatia per la contestazione giovanile a Città di Castello.