Studenti all’ingresso delle scuole in piazza Gioberti.
Manifesto per una Mostra dei lavori degli allievi.
Esercitazione di Giovani Fascisti nel laboratorio della Scuola.

Successi nonostante le avversità

Le difficoltà alla quali andò incontro la Scuola Operaia negli anni ’30 avrebbero potuto travolgerla se non fosse stata fortemente radicata nella società tifernate e altotiberina e se non l’avessero avuta a cuore personalità che si distinsero per spirito civico, altruismo e competenza.

Che la Scuola fosse universalmente apprezzata lo dimostra anche il fatto che chiedevano di iscriversi ben più ragazzi di quanti potessero essere accolti. Nel 1935 fu possibile accettare soltanto 27 nuove iscrizioni al primo corso su 77 domande, tre anni dopo 30 su 156. Era doloroso escludere parte di questi giovani provenienti da tutta la valle, persino da lontane località rurali. Infatti chi usciva dalla Scuola Operaia trovava certamente lavoro; anche i piccoli artigiani ormai richiedevano a bottega preferibilmente dei diplomati della “Bufalini”. Inoltre dei suoi ex allievi avevano trovato facilmente occupazione anche fuori zona.
A tenere alto il prestigio della Scuola Operaia, nella seconda metà degli anni ’30, contribuirono i brillanti risultati delle gare di mestiere allora promosse dalle organizzazioni del regime fascista. Nel 1936 i suoi allievi vinsero il campionato provinciale per la decorazione e il ferro battuto; due e tre anni dopo conseguirono il primo premio nelle prove di intarsio e intaglio, meccanica e ferro battuto; altri successi seguirono nel 1940-1941.
In tale contesto ebbero esito lusinghiero le ispezioni ministeriali sulla gestione della Scuola. Si resero pure conto di come essa, pur nella modestia dei mezzi a disposizione, riuscisse ad adeguarsi alle trasformazioni richieste dal mercato del lavoro. Già negli anni ’30 finì con il prevalere l’esigenza di formare operai qualificati per industrie locali che si stavano sviluppando tecnologicamente. Inoltre prese decisamente il sopravvento l’industria meccanica su quella del legno, che offriva minori prospettive occupazionali, e un numero crescente di allievi chiese quindi di iscriversi al reparto meccanica. Tuttavia non vennero a mancare gli iscritti ai corsi di falegnameria e i diplomati di questo settore beneficiarono dell’ausilio della Scuola per trovare sbocchi occupazionali.
Lungi dal ridursi a semplice istituto di formazione professionale per la gioventù, la “Bufalini” si confermò come imprescindibile punto di riferimento dell’ambiente produttivo di Città di Castello e dei suoi intellettuali. Per i piccoli artigiani, sprovvisti di quell’attrezzatura tecnologica di cui la Scuola si stava dotando, divenne consuetudine rivolgersi ai suoi laboratori per lavoretti di tornitura e di saldatura elettrica e autogena. E il suo insegnante di disegno, Marco Tullio Bendini, fu il consulente grafico, generoso quanto disinteressato, per quanti abbisognavano di disegni per manufatti in ferro battuto o per mobilio di vario stile. Gli stessi corsi serali di disegno e di plastica tenuti da Bendini nella Scuola avviarono all’arte giovani che si sarebbero poi affermati, come Alvaro Sarteanesi, Aldo Riguccini e Bruno Bartoccini.
Nel 1932 la “Bufalini” poteva vantare: “Nessuna manifestazione dell’industria locale avviene senza il presidio o addirittura l’iniziativa della Scuola Operaia”. Ciò rimase vero per tutto il decennio. La più importante manifestazione cittadina dell’epoca, la Mostra dell’Artigianato e delle Massaie Rurali del 1937 fu allestita proprio nella sede e nei laboratori della Scuola.