Dislocazione dei presidi partigiani a Marzana e sul Monte Favalto.
Scheda partigiana di Aldo Pacciarini.
Badia Petroia
Monte Santa Maria Tiberina

L’offensiva partigiana di giugno

Riguardo alla situazione del movimento di Resistenza a occidente del Tevere, il Notiziario della GNR del 30 maggio 1944 diffuse informazioni assai confuse e inesatte: “Nella zona fra Città di Castello, Sansepolcro e Monterchi si aggira una banda che ammonta a circa 500 uomini, comandati dal conte Ferretti di Ortona”. Secondo i fascisti, vi era un’altra formazione partigiana tra Palazzo del Pero e Castiglion Fiorentino, della quale però non si conosceva la consistenza. A confondere le idee al nemico era la stessa tattica attuata dai partigiani. Come sottolineò uno di essi, “la presenza delle molte pattuglie che, ad ogni sosta, percorrevano in lungo e in largo quanto più territorio possibile, lasciava intendere che una moltitudine di partigiani presidiava tutte le montagne”.

La stessa incapacità del regime di avere un’idea abbastanza precisa di quanto stava avvenendo sulle montagne ne sottolineava le difficoltà politiche e militari. In realtà tra le valli del Cerfone, dell’Aggia, del Nestoro, del Minima e del Niccone, gli affluenti alla destra del Tevere, operavano le bande della “Pio Borri” di Morra, Monte Santa Maria, Badia Petroia e Cortona, oltre al Centro “Poti” e ai partigiani dell’Aretino che facevano capo a Marzana. La loro forza complessiva era assai inferiore a quello stimata dai fascisti e il loro comando strategico gravitava su Arezzo. Con la fucilazione di Venanzio Gabriotti era stata eliminata l’unica persona che nella valle poteva garantire un qualche coordinamento con le forze partigiane a oriente del Tevere, soprattutto con la Brigata “San Faustino”.

L’imbarazzo per la mancanza di una corretta conoscenza dell’ubicazione e della consistenza delle forze nemiche andava di pari passo, nei fascisti, con un crescente senso di impotenza. Emblematico un episodio avvenuto il 31 maggio a Badia Petroia e reso noto dalle stesse autorità del regime: un giovane partigiano armato di pistola, con una divisa coloniale addosso e “fazzoletto rosso al collo e striscia rossa al braccio” entrò in chiesa, interruppe la messa serale, invitò la popolazione alla calma, ordinò a una quindicina di compagni di bloccare le strade del paese e di tagliare i fili del telefono, fece un’incursione nell’ufficio postale e poi se ne partì tranquillamente con la banda verso il confine toscano. Lo stesso giorno, a pochi chilometri di distanza, altri “ribelli” disarmavano a Marcignano due militi del distaccamento fascista repubblicano di Monte Santa Maria Tiberina.

Che il movimento partigiano desse l’impressione di scorrazzare a proprio piacimento in questo territorio tra Umbria e Toscana lo testimoniano i fatti. Dal 27 maggio al 27 giugno vi si verificarono una cinquantina di azioni di carattere militare da parte delle bande. A giugno le tre formazioni di Morra, Monte Santa Maria Tiberina e Badia Petroia effettuarono incursioni quasi quotidiane. In 19 giorni del mese le operazioni di guerriglia videro impiegati quattro o più partigiani: il 6-7 giugno ne mobilitarono 38, il 12 giugno 27, il 18 giugno ben 51. Tali bande, con l’ingresso di un’altra decina di uomini, avevano ormai raggiunto la consistenza definitiva. Sulla base degli elenchi poi trasmessi alla Commissione regionale toscana per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano, la banda di Morra contava 39 combattenti, quella del “Monte” 35, quella di Badia Petroia 28. I tedeschi subirono 38 attacchi, di varia consistenza, un po’ in tutte le arterie della zona, soprattutto lungo le strade da Cortona a Città di Castello e da Arezzo a Ville Monterchi. Per quanto si debbano in genere considerare con cautela i dati segnalati sulle perdite inflitte al nemico, quando – come in questo caso – mancano i dati della parte avversa, fonti della Resistenza valutarono in più di 20 i tedeschi uccisi nel corso di tali attacchi e in 23 quelli catturati. Per quanto riguarda i prigionieri, solitamente internati nel campo di concentramento di Marzana, il numero non appare esagerato; infatti quando venne sgomberato, all’inizio di luglio, i partigiani ne condussero 53 oltre le linee, per consegnarli agli Alleati. Ma c’è chi assicura di averne contati lassù più di 60.

Se indubbia fu la pressione esercitata dai partigiani sui tedeschi, insicurezza ancora maggiore dovettero provare i fascisti. Tra il 27 maggio e il 12 giugno si succedettero 12 episodi di disarmo di loro militi. Oltre a essere presi di mira alcuni presidi della GNR, numerosi altri militi furono disarmati dopo essere stati sorpresi isolati o in piccoli gruppi. Naturalmente ebbero maggiore impatto a livello di opinione pubblica e più significativi risultati militari le incursioni nei centri abitati e contro consistenti nuclei fascisti.

Il 28 maggio alcuni uomini della banda del “Monte” penetrarono nella stazione ferroviaria di San Secondo, perquisirono le carrozze e disarmarono alcuni fascisti. Poco prima della mezzanotte del 6 giugno una quindicina di “ribelli” assaltarono la caserma di Lugnano. Dal comando della GNR di Città di Castello telegrafarono a Perugia: “[…] nessuna resistenza est stata opposta da parte rimanenti sette militari che trovavansi in caserma”. In effetti il maresciallo capo dei carabinieri si decise ad aprire la porta per evitare uno spargimento di sangue. La caserma sarebbe rimasta chiusa fino all’arrivo degli Alleati.

Nel corso della stessa notte fu presa di mira la caserma della GNR di Monte Santa Maria Tiberina. L’attaccarono partigiani delle bande di Morra e del “Monte”, insieme a quelli della Badia non impegnati a Lugnano. Piero Signorelli guidava l’assalto: “C’erano 7 carabinieri e 16 fascisti, mi sembra. Prima li abbiamo invitati ad arrendersi. Noi si era una settantina, e già armati con i mitra datici dagli Alleati. Però andò a finire che vollero difendersi”. Dopo una sparatoria piuttosto violenta, i militi arroccati nel presidio si arresero. Ricorda ancora Signorelli: “Poi abbiamo prelevato le armi, ma non ci si faceva più niente; a quel punto erano meglio le nostre. Loro avevano una mitragliatrice FIAT della guerra ’15-18, col raffreddamento ad acqua…” Da quel momento la caserma di Monte Santa Maria Tiberina rimase del tutto sguarnita di militi fascisti.

Nei giorni successivi i partigiani si resero autori di altre azioni di disarmo a Monterchi e a Canoscio, dove si situava un posto di avvistamento anti-aereo.

Tedeschi e fascisti avevano ormai la consapevolezza di correre seri e costanti pericoli nel percorrere le arterie che risalivano i torrenti alla destra del Tevere. Loro automezzi e motociclisti vennero attaccati anche lungo le valli di minore rilevanza strategica, come quelle dell’Aggia e del Nestoro. Ma l’aggressività partigiana fu particolarmente intensa a ridosso della strada che dall’Alta Valle del Tevere, attraverso San Leo Bastia, si inerpica verso Cortona e il Valdarno. Lì le formazioni cortonesi della “Pio Borri” sferrarono dall’8 al 26 giugno una ventina di attacchi. Anche gli altotiberini giunsero talvolta a supporto dei partigiani di Cortona e di Castiglion Fiorentino. Alla distruzione del ponte sul passo della Cerventosa prese parte la banda di Badia Petroia. Ad un blocco stradale si trovarono insieme tre della banda del “Monte” e due toscani. Nelle parole di Piero Signorelli, il racconto dell’agguato: “Era di giorno. Ad un certo punto viene un camion da Cortona, carico di proiettili di artiglieria. Appena arriva si spara per farlo fermare. Lo vediamo ribaltarsi e piegarsi su un fianco, contro la scarpata. Dal finestrino che dava in alto escono due tedeschi con l’arma in mano. Siamo costretti a fare fuoco e li uccidiamo. Un terzo tedesco esce a mani alzate e lo prendiamo prigioniero. Poi ci siamo dati da fare per nascondere i due corpi. Li abbiamo trascinati nel vicino campo di granturco. Poi abbiamo cancellato ogni traccia dello scontro a fuoco”.

Non si trattò solo di una fastidiosa attività di sabotaggi e di disturbi al traffico. A giugno, gli agguati agli automezzi in transito sulla strada provinciale da Cortona a Città di Castello costarono ai tedeschi – se sono veri i dati riportati da Antonio Curina – 13 morti, 5 feriti, 9 prigionieri. Renato Valli, il comandante della formazione “Poggioni” che operò in quella zona, quantificò in 6 i tedeschi uccisi e in 11 i catturati tra l’8 e il 26 giugno. Al di là dell’attendibilità delle cifre, resta il fatto che i partigiani raggiunsero l’obbiettivo di rendere assai problematico il transito tedesco su quella strada.

Delle ombre sull’operato della Resistenza lo gettò il comportamento di una banda alla macchia sul tratto appenninico tra Cortona e Città di Castello, che “viveva di violenze e di rapine”, e di alcuni esponenti della banda di Badia Petroia. A quattro di essi non sarebbe poi stata riconosciuta la qualifica di partigiano combattente per “indegnità”: li si accusò di “furto commesso durante l’azione partigiana”. Qualche vittima di requisizioni effettuate per prelevare generi alimentari e finanziamenti per il movimento alla macchia aveva sporto denuncia per rapina; era tutt’altro che convinta, per le modalità del prelievo, che si trattasse di azioni legate alla lotta al nazi-fascismo. Fu coinvolto nella vicenda il cortonese Valentino Lorenzini, subentrato ad Aldo Migliorati il 10 maggio al comando della banda di Badia; secondo la “Pio Borri”, se ne distaccò senza valido motivo il 21 giugno, data nella quale ne riassunse le redini Migliorati. Lorenzini sarebbe stato arrestato dopo la liberazione e incarcerato per 14 mesi, fino all’estinzione per amnistia dei reati imputatigli. A suo dire le requisizioni erano state fatte “per il fabbisogno della banda” e – scrisse – “quando mi facevo consegnare viveri o danaro rilasciavo ricevuta firmata con il mio vero nome”. Ma la Commissione regionale toscana non ne accolse le giustificazioni e non gli attribuì la qualifica di partigiano combattente.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.