Attestato partigiano di Gino Duchi.
Scheda di Aldo Migliorati.

Vicende partigiane nell’Appennino umbro-toscano tra marzo e maggio

Viene fatta risalire all’inizio di marzo 1944 la costituzione formale delle bande di Morra e di Monte Santa Maria Tiberina, di fatto già esistenti. Quella di Morra, al comando di Angelo Ferri, inizialmente “si occupò, più che mai, di trovare armi, munizioni e vettovagliamento ed effettuò varie azioni di disturbo e di sabotaggio”. Il nucleo del “Monte”, con Guerriero Baffo comandante, aveva bisogno di armamento e Aldo Donnini – attivissimo nella sua opera di organizzazione e di collegamento con l’antifascismo aretino – si fece carico del problema: “[…] si spera di poterlo rafforzare con le famose armi che mi ha promesso Curina”.

In realtà le bande della zona, compresa quella di Badia Petroia, stabilmente stanziata a Ghironzo, attesero invano quanto promesso da Antonio Curina e dovettero ricorrere ad azioni di disarmo per dotarsi di qualche arma in più ed essere così in grado di combattere. In tali azioni si distinse la banda del “Monte”. Baffo ne requisì alcune con due incursioni nella prima metà del mese. Un altro episodio dimostra come i comunicati ufficiali finissero con l’alimentare la psicosi di una campagna infestata da ribelli. Erano solo tre, comandati da Piero Signorelli e armati di una semplice pistola, i partigiani che il 22 marzo fermarono a Marcignano due guardie forestali, impossessandosi delle armi e munizioni che avevano indosso; il rapporto inviato dalle autorità di polizia a Perugia parlò invece di circa 20 ribelli, armati di fucili da caccia e pistole.

Il mancato invio di armamento alle tre bande da parte dei comitati clandestini antifascisti non significava che essi fossero inoperosi. Però a quell’epoca il tifernate Venanzio Gabriotti e il Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista di Arezzo non riuscirono ad andare oltre un sostegno politico, morale e strategico. Da questo punto di vista il CPCA ottenne per lo meno il risultato di far accettare alle tre bande un legame con il “Raggruppamento Patrioti Pio Borri” di Arezzo. La responsabilità del coordinamento del movimento partigiano tra il Monte Favalto e l’Alta Valle del Tevere fu affidata a Siro Rosseti e a Eugenio Calò. Tale territorio aveva una considerevole rilevanza strategica: lo lambivano le strade statali della Valdichiana e della valle tiberina e le via trasversali delle valli del Niccone e del Cerfone.

L’8 aprile la banda di Monte Santa Maria Tiberina rischiò di rimanere decapitata. Una pattuglia di militi fascisti sorprese il comandante Guerriero Baffo e il suo vice Piero Signorelli mentre stavano rientrando dalla macchia a Marcignano. Era il Sabato Santo e i due partigiani speravano di poter passare la Pasqua in famiglia. Si dettero alla fuga nella boscaglia, inseguiti dai fascisti, sparando colpi di moschetto agli inseguitori. Signorelli, benché colpito a una spalla, riuscì a nascondersi; Baffo venne catturato. A quel punto giunsero dei contadini del posto; il loro brusio, le loro espressioni ostili contro i fascisti – erano infatti parenti dei partigiani di Monte Santa Maria Tiberina – e il fatto che Signorelli, appostatosi in posizione favorevole, continuava a far fuoco contro di loro, dettero l’impressione ai militi di essere circondati. Approfittando del momento favorevole, il fratello di Signorelli, Angelo, che partigiano non era, si frappose e convinse i fascisti a rilasciare Baffo, dando loro l’assicurazione che avrebbero potuto ritirarsi senza problemi. I dettagli della vicenda forniti da un diretto protagonista come Signorelli assumono un particolare interesse se si confrontano con altri resoconti di parte, che la ricostruiscono in modo assai diverso. Fonti fasciste parlarono di una loro pattuglia di appena due o quattro militi che fermò i due giovani, i quali si dettero alla fuga gettando le armi; non accennarono minimamente alla cattura di Baffo. Antonio Curina invece scrisse che furono i due partigiani ad attaccare i militi e che, dopo la cattura di Baffo, fu Signorelli a liberarlo mettendo in fuga i fascisti.

Successivamente la banda del “Monte” si impegnò in azioni di disarmo di militi fascisti e carabinieri tra la valle dell’Aggia, Monterchi e la strada San Giustino-Sansepolcro. La dinamica di quest’ultimo episodio è emblematica della peculiare capacità delle pattuglie partigiane di operare anche oltre il proprio territorio di insediamento e delle coperture di cui godevano. Un informatore fece sapere alla banda del “Monte” che la famiglia di un renitente presso Cospaia subiva visite quasi quotidiane dai militi. Nottetempo un nucleo di partigiani attraversò la valle e al mattino tese l’imboscata: “Erano due carabinieri e tre fascisti. Noi s’era in sei. Li abbiamo disarmati vicino a San Giustino. Ci siamo nascosti dietro due siepi lungo la strada. Loro tornavano tranquilli, chiacchieravano tra di loro. Erano andati a una casa colonica sopra la strada, dove volevano arrestare un renitente”.

Con l’avanzare della primavera, la banda del “Monte” si insediò tra Piantrano, sul crinale a settentrione della valle del torrente Aggia, e Marzana, verso Monte Favalto. I dati disponibili su di essa permettono di delinearne un’identità statisticamente interessante. Su 33 partigiani ufficialmente riconosciuti, o comunque effettivi, nel 1944 18 avevano 19 o 20 anni, 3 addirittura 18 anni; comandavano la formazione un ventiduenne e un diciannovenne. Per quanto riguarda la professione: 9 erano mezzadri, 7 coltivatori diretti, 8 operai, 5 braccianti, 2 boscaioli, 1 studente.

In quel periodo, nella zona operativa dei partigiani che operavano alla destra del Tevere, le gesta che lasciarono una maggiore impronta sulla popolazione e che evidenziarono un controllo del territorio da parte delle bande assai imbarazzante per i fascisti furono alcune requisizioni di vasta portata, seguite dalla distribuzione dei beni alla gente del posto. La prima avvenne a Morra il pomeriggio del 23 aprile. Un centinaio di “ribelli”, che a dire dei fascisti indossavano uniformi “kaki oliva” ed erano ben armati di fucili mitragliatori, “mitra-pistole” e bombe a mano, circondò l’abitato. Poi una ventina di essi si fece consegnare le chiavi del frantoio dei Nicasi, distribuì alla popolazione sette quintali di olio e ne asportò per il proprio consumo, insieme ad altri generi alimentari e beni di prima necessità, un quintale in due barili. In serata la banda saccheggiò l’ufficio postale, prelevando del denaro in contanti e distruggendo registri e documenti. Parteciparono all’azione anche gli uomini di “Tifone”, di passaggio per l’alta valle del Nestoro. Due giorni dopo una quindicina di partigiani irruppe a Petrelle: tagliò le comunicazioni telefoniche, si fece consegnare dal fattore del marchese Bourbon di Petrelle biancheria, calzature e vestiti, intimò alle due maestre della locale scuola elementare di non fare propaganda fascista tra gli allievi, quindi se ne tornò sui monti. I “ribelli” indossavano dei berretti con una stella rossa sulla fronte.

Il 4 maggio, infine, furono presi di mira dei magazzini di grano nel territorio di Città di Castello e di Monte Santa Maria Tiberina. Alle due del mattino una cinquantina di ribelli armati di mitra, pistole e bombe a mano si fece aprire il granaio della fattoria della Società Cibele a Cerreto, presso Canoscio, chiamò a raccolta le famiglie della zona e mise a loro disposizione i circa 540 quintali di grano già destinato all’ammasso. Poi se ne andò in direzione di Morra portandosi dietro quasi 9.000 lire sottratte alla cassa dell’amministrazione. Lo stesso giorno un folto gruppo di partigiani requisì a Ricastelli 115 quintali di grano di proprietà dei fratelli Guerri e a Gioiello altri 180 quintali di grano e una certa quantità di vino della principessa Boncompagni. Le autorità fasciste telegrafarono immediatamente a Perugia: “Parte grano asportato principessa Boncompagni est stato distribuito da ribelli at popolazione residente Gioiello et vicinanze accorsa a seguito chiamata ribelli”. Con un successivo fonogramma al Capo della Provincia, il locale Partito Fascista Repubblicano, ricordando che nella zona erano stati recentemente distribuiti alla gente circa 770 quintali di grano e l’olio d‘oliva ammassato a Morra, individuò alcuni responsabili, ma soprattutto lanciò un allarme politico: “Gli autori di tali prelievi e di tali distribuzioni, sempre armati, avevano il viso bendato con fazzoletti. Nonostante ciò tra essi sono stati riconosciuti Baffo Guerriero e i cugini Signorelli, tutti di Monte Santa Maria Tiberina. Tali incidenti rivestono carattere di particolare gravità, in quanto la popolazione gradisce tali saccheggi seguiti da distribuzione […]”.

Le formazioni partigiane del territorio tifernate a occidente del Tevere stavano acquisendo una consistenza importante per gli standard locali. Ai ridotti nuclei iniziali s’erano già aggregati parecchi nuovi elementi a marzo, prevalentemente nella prima decade del mese. Le bande di Morra e di Badia Petroia ne aveva acquisiti undici ciascuna, quella del “Monte” nove. Poi l’ingresso di nuovi combattenti era continuato a primavera; complessivamente le tre bande ne accolsero tredici ad aprile e venti a maggio, per lo più all’inizio del mese. Tuttavia le potenzialità militari di tali formazioni restavano modeste e non permettevano di porsi obbiettivi importanti. Fu la banda del “Monte” a mostrare maggiore combattività: considerando le azioni di maggior rilievo, nelle quali impiegò tre o più partigiani, ne effettuò almeno sette tra aprile e maggio.

Sull’attività partigiana di quel territorio pesò la crisi del comitato clandestino antifascista di Città di Castello, all’inizio di maggio, con l’arresto e la fucilazione di Venanzio Gabriotti. Si interruppe un collegamento vitale per le bande. La morte di Gabriotti fece mancare soprattutto alla formazione di Morra un sicuro punto di riferimento: “È un brutto colpo; quasi ci sembra di essere rimasti senza guida”, avrebbe scritto Aldo Pacciarini. Si mosse personalmente il comandante della Resistenza aretina Siro Rosseti per rincuorare gli animi. La sua visita consolidò le motivazioni della banda a continuare a combattere.

 

Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.