Partigiani della “San Faustino” dopo il disarmo da parte degli Alleati.
Ruolino della Brigata "San Faustino"

Le vicende della Commissione regionale umbra

La Commissione umbra visse vicende particolarmente travagliate e controverse. Nel 1948 un alto ispettore ministeriale contestò numerose irregolarità formali e il grave disordine in cui versava il carteggio della Commissione; chiese inoltre di revocare i riconoscimenti concessi a chi aveva presentato domanda oltre i termini previsti e ai partigiani che mostravano di avere solo requisiti di patrioti; prospettò infine l’eventualità di addebitare al presidente e al segretario della Commissione il danno subito dall’erario pubblico per gli indebiti riconoscimenti. Di lì a poco il presidente Alfredo Filipponi venne sostituito nell’incarico da Giovanni Pascoli. Il nuovo presidente effettuò un’accurata verifica dello schedario, quantificando in 356 (162 uomini e 194 donne) i partigiani impropriamente riconosciuti e proponendo la revoca delle loro qualifiche, “nello stesso interesse della grande famiglia dei partigiani e per non minare vieppiù il prestigio nato dal movimento”. Tra i casi messi in discussione da Pascoli, 46 riguardavano partigiani altotiberini della Brigata “San Faustino” (tutti per una militanza inferiore ai tre mesi prescritti per legge), 9 una sedicente “Formazione di San Giustino” e 5 la banda di Morra. La proposta di Pascoli fu osteggiata dai membri della Commissione, che nel 1949 proseguì i lavori in un clima di forte tensione, sfociato in querele e polemiche di stampa. I commissari accusarono il presidente di diffamare e “di mettere sotto accusa il movimento partigiano umbro” e chiesero l’intervento del consiglio dei ministri “perché il nome dei cinquecento partigiani caduti non venga scientemente infangato”. Pascoli, che proveniva dai ranghi degli ufficiali dell’esercito, in una lettera all’Avvocatura Generale dello Stato contestò ai commissari un comportamento improntato a “poca serietà e faciloneria” e di “avere, di comune accordo, sanzionato illeciti conferimenti […] violando così le disposizioni di legge e recando all’Erario un danno notevole”.

Tale conflittualità e la gravità dei rilievi mossi alla Commissione umbra inevitabilmente finiscono con il gettare delle ombre su parte dei riconoscimenti da essa attribuiti. A prescindere dalle contestazioni più gravi, è indubbio che adottò criteri assai permissivi. Se si prendono in considerazione i 176 partigiani della “San Faustino” dei comuni di Città di Castello, Pietralunga, Montone e Umbertide dei quali si conosce la data d’inizio della militanza, per 44 di essi (il 25% del totale) essa è successiva al 16 aprile 1944. Nonostante che il periodo di appartenenza alla formazione risulti inferiore ai tre mesi richiesti dalle disposizioni di legge, la Commissione umbra riconobbe loro ugualmente la qualifica di partigiani. 24 (il 13,1%) furono inquadrati nella “San Faustino” nel mese di giugno, mettendo insieme un’attività effettiva nella Resistenza armata variante da 3 a 6 settimane.

La Commissione non si mostrò rigorosa nemmeno nella valutazione della militanza nella Resistenza. Valgano d’esempio due casi riferiti alla zona tra Umbertide e Gubbio. Il pugliese Raffaele Simone dichiarò in un suo memoriale di aver fornito informazioni, viveri e generi necessari al sostentamento alla banda di Bruno Enei, che operava a Pisciano di Gubbio, e di aver partecipato a una sola azione militare, contro i tedeschi in ritirata a Camporeggiano. A termini di legge, avrebbe dovuto essere riconosciuto patriota. Enei sostenne che Simone, “pur non avendo fatto parte di un movimento partigiano vero e proprio”, era meritevole di essere qualificato partigiano e la Commissione ne accolse la richiesta. L’umbertidese Antonio Taticchi dichiarò apertamente di non aver partecipato al alcuna azione bellica e di essersi adoperato più che altro a fornire informazioni “sull’attività di movimenti di truppe tedesche, della GNR e di fascisti del luogo”. Siccome non fu riconosciuto né partigiano né patriota, il comandante Stelio Pierangeli sostenne con successo il suo ricorso, affermando che a Taticchi competeva la qualifica di partigiano combattente, essendo egli appartenuto alla “San Faustino” come membro del CLN clandestino. Un criterio, questo, adottato in larga scala dalla Commissione umbra: infatti vennero prima o poi riconosciuti partigiani combattenti tutti gli esponenti antifascisti di Città di Castello che gravitarono intorno al Comitato Clandestino di Soccorso presieduto da Venanzio Gabriotti, anche se nella maggior parte dei casi il loro contributo al movimento avrebbe dovuto comportare la qualifica di patriota.

Tali rilievi spiegano perché risulti difficile formulare un quadro statistico della Resistenza armata nell’Alta Valle del Tevere. La difformità dei criteri di valutazione adottati dalle Commissioni dell’Umbria e della Toscana è tale che numerosi esponenti toscani della lotta al nazi-fascismo riconosciuti da quella toscana come patrioti avrebbero potuto essere qualificati come partigiani, se giudicati dalla umbra. Un caso emblematico è quello di Pergentino Arioldi, di Sansepolcro: esponente del CLN clandestino, ne ospitò le riunioni in casa sua, dove raccolse anche armi e viveri che contribuì a inviare ai partigiani; per questa sua attività fu arrestato e incarcerato. Ciò nonostante, la Commissione toscana lo riconobbe solo come patriota.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.