Funerale dei “martiri della libertà” di Città di Castello.
Riconoscimento di partigiano caduto di Candido Bellucci.

Classificazione dei caduti per la lotta di Liberazione

La legge n. 518/1945 stabiliva di considerare “caduti per la lotta di Liberazione” i partigiani morti in combattimento e per malattie acquisite durante la Resistenza, le vittime di rappresaglie e i prigionieri politici e gli ostaggi uccisi dai nazi-fascisti. Era implicito che si tenessero distinte le categorie di “partigiano combattente caduto” e di vittima civile di atti di violenza.

La Commissione umbra invece qualificò come “partigiani combattenti caduti” appartenenti alla “San Faustino” anche numerose vittime civili di rappresaglie e di esecuzioni sommarie. Se si prende in considerazione il territorio di Città di Castello ebbero tale riconoscimento le cinque vittime della strage di Meltini, le nove di Pian dei Brusci e tre altre uccise in episodi singoli. Compaiono come “partigiani combattenti caduti” anche un giovane civile deportato in Germania e deceduto sulla via del ritorno e un adolescente colpito da una granata durante il passaggio del fronte. La Commissione considerò tali anche dodici degli assassinati nel rastrellamento nazi-fascista del maggio 1944, tra cui cinque forestieri. In tali casi la classificazione più appropriata – come suggerito dalle disposizioni ministeriali – sarebbe stata di “caduti per la lotta di Liberazione”.

Ne consegue che l’elenco dei partigiani caduti della “San Faustino” approvato dalla Commissione umbra negli incontri dal 9 al 18 marzo 1946 è solo parzialmente attendibile. Dei 52 nominativi indicati, 29 furono in realtà civili vittime di rappresaglie ed esecuzioni sommarie, uno della deportazione e uno di esplosione di granata; altri cinque, pur essendo partigiani, non appartenevano alla “San Faustino”. Sono dunque 16 i caduti reali della Brigata, tra Alta Valle del Tevere ed Eugubino.

C’è da ritenere che, alla base dell’attribuzione di alcune qualifiche di “partigiano combattente caduto”, vi sia stato l’intento umanitario di garantire ai famigliari delle vittime civili un soccorso economico e assistenziale più consistente di quello al quale avrebbero avuto diritto come congiunti di “caduti per la lotta di Liberazione”. È doveroso ricordare che quei tragici lutti colpirono per lo più famiglie rurali povere, rimaste prive di braccia essenziali al lavoro nei poderi e quindi al loro sostentamento. I sopravvissuti delle famiglie Sorbi e Ramaccioni, di Pian dei Brusci, vivevano in condizioni di tale indigenza che seppellirono nel cimitero di Lugnano i nove famigliari trucidati avvolgendoli in semplici lenzuola. Nell’ottobre 1945 chiesero invano un sussidio al Comune per dar loro “onorevole sepoltura”, sistemando le salme in casse funebri. Dopo circa due anni ribadirono la richiesta e il sindaco, che non aveva fondi a disposizione, li invitò a inviare la domanda al ministero della Difesa, con un documento comprovante che il decesso era avvenuto per la lotta di Liberazione. Nel marzo di quel 1947 il governo aveva deliberato di concedere ai congiunti indigenti dei caduti e dei fucilati per la lotta di Liberazione contributi da 15 a 30.000 lire per la traslazione delle salme.

La prassi di elargire sussidi alle famiglie delle vittime civili della guerra, riconoscendone come causa o contesto la lotta di Liberazione, divenne così diffusa che nel novembre 1946 il il Ministero dell’Assistenza Post Bellica lamentò il fatto che alcuni sindaci rilasciavano “con eccessiva facilità dichiarazioni attestanti la morte di individui a causa di rappresaglie nazi-fasciste”; raccomandò pertanto “di usare maggiore obbiettività nel rilascio delle dichiarazioni in questione”, acquisendo le necessarie informazioni presso le autorità competenti.

La Commissione umbra dovette tenerne conto. Quando, nel 1948, prese in esame la richiesta della vedova di Emilio Venturini, ucciso dai tedeschi a Badia Petroia lo stesso giorno della strage di Pian dei Brusci, di attribuire al marito la qualifica di partigiano combattente caduto, rispose: “[…] è un caduto civile, non può essere riconosciuto”. Il sindaco di Città di Castello aveva sostenuto l’istanza, “al fine di permettere alla famiglia interessata di ottenere tutti quei benefici stabiliti dalle vigenti disposizioni”, certificando che il Venturini era stato ucciso nella “rappresaglia di Pian dei Brusci”. Con il tempo tale criterio si consolidò. Quando, nel 1970, i famigliari di Ennio Belardinelli – ucciso da una granata presso Montone durante il passaggio del fronte, dopo essersi liberato dei tedeschi che l’avevano catturato – chiesero il riesame del suo caso e il riconoscimento della qualifica di partigiano combattente caduto, la Commissione unica nazionale confermò invece la semplice qualifica di caduto per la lotta di Liberazione, “mancando totalmente i requisiti comprovanti una attività partigiana”.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.