Riconoscimento partigiano di Stelio Pierangeli.
Certificato della "San Faustino" a beneficio di Ubaldo Narducci.
Riconoscimento di partigiano caduto di Enrico Riponi.

Il riconoscimento delle qualifiche di partigiano e patriota

Si poneva intanto la questione di come tradurre in benefici di carattere economico e amministrativo la militanza nella Resistenza, l’essere stato ferito nella lotta armata e l’aver avuto i propri famigliari o partigiani caduti in combattimento o vittime di rappresaglie ed esecuzioni sommarie nazi-fasciste. Nel dicembre 1944 il comandante della Divisione Partigiani “Arezzo” diramò una circolare ai Comuni della provincia aretina, invitandoli a compilare gli elenchi dei civili caduti in combattimento o fucilati dai nazi-fascisti. Ricordò le disposizioni del ministero della Guerra di iscrivere “ad honorem” alla Resistenza armata, per il suo sacrificio, anche chi aveva perso la vita per mano nazi-fascista, pur non facendo parte organicamente di formazioni partigiane.

Fu con il decreto legislativo luogotenenziale n. 158 del 5 aprile 1945 che si stabilì una prima classificazione, individuando le qualifiche di patriota combattente, di benemerito della lotta di liberazione e di caduto per la lotta di liberazione. Per patrioti combattenti si intesero “gli organizzatori e i componenti stabili od attivi di bande” con una effettiva attività di combattimento o di sabotaggio e coloro che avevano compiuto “atti di eccezionale ardimento”. Si qualificò come benemeriti della lotta di liberazione quanti avevano svolto “con proprio rischio rilevante” attività di Resistenza e di collaborazione con le formazioni armate. La categoria dei “caduti per la lotta di liberazione” includeva, oltre ai partigiani uccisi in combattimento, anche le vittime di rappresaglie e i prigionieri politici e gli ostaggi assassinati dai nazi-fascisti. Tuttavia il decreto non ebbe pratica attuazione riguardo al riconoscimento delle qualifiche individuate.

Di lì a poco, il decreto luogotenenziale n. 421 del 20 giugno 1945 disciplinò i “premi di solidarietà nazionale” da assegnare alle varie qualifiche. Si stabilì in L. 1.000 il premio per i patrioti combattenti, elevato a L. 5.000 per quanti avevano partecipato alla lotta di liberazione armata per almeno tre mesi e a L. 10.000 per chi aveva subito “ferite gravi”. Venne inoltre quantificata in L. 20.000 l’indennità per le famiglie dei patrioti “dispersi o caduti in combattimento o caduti per rappresaglie o deceduti in seguito a ferite o malattie contratte in servizio”.

Un nuovo decreto – il n. 518 del 21 agosto 1945 – dette una definitiva sistemazione alla materia, in modo da poter procedere ai riconoscimenti delle qualifiche su tutto il territorio nazionale. Innanzitutto le riformulò. Il “patriota combattente” divenne “partigiano combattente”; il termine di “benemerito per la lotta di liberazione” fu sostituito con “patriota”. Per quanto riguarda il movimento di Resistenza a sud della Linea Gotica, il requisito minimo per ottenere la qualifica di partigiano combattente era la militanza “per almeno tre mesi” in formazioni armate o gappiste, con la partecipazione ad almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. La qualifica spettava inoltre, senza limiti temporali, ai decorati al valor militare e ai feriti per attività partigiana e a quanti, in seguito ad essa, avevano subito “per oltre tre mesi” carcere o internamento in campi di concentramento. Per il riconoscimento di patriota si richiedeva un’attiva collaborazione alla Resistenza, sia militando nelle formazioni partigiane “per un periodo minore di quello previsto”, sia prestando a esse “costante e notevole aiuto”. Quanto ai caduti per la lotta di liberazione, si ribadì che la categoria includeva anche “gli assassinati dai nazi-fascisti perché prigionieri politici, o quali ostaggi, o per rappresaglia”, e i prigionieri politici deceduti “per i maltrattamenti subiti in carcere od in campo di concentramento”. Il decreto, che entrò in vigore il 12 settembre 1945, sollecitava a presentare entro sei mesi le domande per il riconoscimento delle qualifiche alle commissioni regionali all’uopo previste.

Le sezioni dell’ANPI, i CLN e i comitati patriottici cittadini cominciarono subito a predisporre, di concerto con i comandanti locali della Resistenza, gli elenchi dei partigiani e dei patrioti e le domande di riconoscimento della qualifica per ciascuno di essi. Intanto però incombeva il problema dei reduci in situazione di indigenza. Nel novembre 1945 il ministero dell’Assistenza Post-Bellica dispose l’immediata erogazione di sussidi da parte degli Enti Comunali di Assistenza: “Tutti i partigiani che versano in condizioni di bisogno e disoccupati hanno diritto ad un assegno giornaliero di L. 20 se isolati e di L. 17 per membri di famiglia superiori a 15 anni, L. 14 per membri di famiglia inferiori a 15 anni”.
Le Commissioni regionali si misero all’opera all’inizio del 1946. Man mano che erano approvati, gli elenchi dei partigiani e dei patrioti riconosciuti venivano trasmessi ai Comuni, che li affiggevano all’albo municipale per un mese. Passato tale termine, diventavano definitive le qualifiche di coloro per i quali non era stato inoltrato alcun reclamo e veniva loro inviato il certificato attestante il riconoscimento. La riscossione dei “premi di solidarietà nazionale” – ma si trova anche la dicitura di “premi di smobilitazione” – avveniva previa presentazione del certificato all’ufficio provinciale del ministero dell’Assistenza Post Bellica.
La Commissione toscana si ripropose di valutare con rigore le richieste di riconoscimento. Il 21 dicembre 1945 varò norme integrative del decreto n. 518 improntate a “criteri di severità e di giustizia”. Considerò “indispensabile” la militanza di almeno tre mesi per avere diritto alla qualifica di partigiano combattente; inoltre, il partigiano doveva aver svolto per l’intero periodo “effettivo servizio comportante rischio” e non essersi “limitato a starsene nascosto in attesa di ordini e degli eventi”. Quanto ai sabotaggi compiuti, sarebbero stati presi in considerazione solo quelli di una certa rilevanza, sia per i risultati raggiunti, sia per le difficoltà incontrate: “Non è quindi sufficiente, per esempio, aver attaccato dei manifestini, aver sparso dei chiodi per le strade, aver tagliato un palo del telegrafo o cavi telegrafonici in una località deserta e non sorvegliata”. Anche per il riconoscimento di patriota si richiedeva un impegno sostanziale e continuato, “sotto forma di cessioni di denari, viveri, armi, munizioni, materiali sanitari, ospitalità clandestina, o con l’aver ripetutamente fornito importanti informazioni ai fini di buon esito della lotta di liberazione”. In nessun caso potevano ricevere la qualifica fascisti che avessero “disertato all’ultimo momento”.
Non si sono reperite determinazioni della Commissione umbra sui criteri da adottare, se non quella relativa alla posizione dei membri dei CLN clandestini: decise di considerare partigiani combattenti quanti si erano “tenuti sempre a contatto con le formazioni dei partigiani”, collaborando attivamente con esse.

Il partigiano combattente non aveva solo diritto alla riscossione del “premio di solidarietà nazionale”. Vedeva pure equiparata a tutti gli effetti la propria militanza, per il periodo di attività riconosciuto, a quella dei militari “volontari della lotta di liberazione impiegati nelle zone di operazioni di guerra”. Il trattamento economico assommava la paga giornaliera, il “soprassoldo di operazioni”, la razione viveri in contanti e l’indennità operativa. Al partigiano in servizio operativo dal 1° ottobre 1943 al 15 luglio 1944 spettava un totale di L. 17.099, che diminuiva a L. 11.813 se in attività dal 1° gennaio 1944, a L. 3.518 se dal 1° marzo e a L. 4.636 se dal 1° maggio. Comportava quindi significative differenze l’essere riconosciuto partigiano invece che patriota – il quale non aveva diritto ad alcun trattamento economico –, così come la durata del periodo di attività. Ciò spiega la mole consistente di ricorsi inoltrati sia da patrioti che ritenevano di aver diritto alla qualifica di partigiano, sia da partigiani che richiedevano una estensione del periodo di militanza, sia da collaboratori del movimento antifascista i quali, non inclusi nei primi elenchi inviati alle Commissioni regionali, aspiravano al riconoscimento di partigiano.

La questione si protrasse assai a lungo nel dopoguerra. Le Commissioni regionali continuarono a esaminare ricorsi e richieste. La controversa situazione dei partigiani e patrioti di Anghiari venne addirittura ripresa in considerazione nel 1960. La legge n. 341 del 28 marzo 1968, pur mantenendo fermi i criteri stabiliti dalla n. 518/1945, riaprì i termini per il riconoscimento delle qualifiche di alcune categorie di partigiani e per l’esame delle proposte di decorazioni al valor militare. Nel contempo sciolse le Commissioni regionali, istituendone una unica a livello nazionale. Una nuova legge infine, la n. 287/1981, dette validità a tutte le domande di riconoscimento partigiano inoltrate entro la fine del 1979.

Intanto, nel 1965, era stato fondato presso il ministero della Difesa l’Ufficio per il servizio riconoscimenti e per le ricompense ai partigiani (Ricompart), che quattro anni dopo ereditò gli schedari e i fascicoli delle Commissioni regionali. L’imponente fondo d’archivio (circa 4.500 buste, con 600.000 schede nominative) è stato versato all’Archivio Centrale dello Stato nel maggio 2012 e si sta procedendo alla sua inventariazione, che presumibilmente richiederà molto tempo.

In tale contesto non è ancora possibile presentare un quadro assolutamente definitivo dei riconoscimenti partigiani attribuiti e gli elenchi presentati in questo volume, per quanto suffragati da molteplice documentazione, sono da considerare una solida base per ulteriori approfondimenti.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.