Ritratto di un partigiano toscano eseguito da un militare britannico.
Manifesto di propaganda della Resistenza.

Le bande partigiane altotiberine nel marzo 1944

Per il suo carattere ancora embrionale, nell’autunno-inverno 1943 la Resistenza nell’Alta Valle del Tevere non assunse forme e dimensioni tali da rappresentare un pericolo per i tedeschi. Non a caso, l’unico territorio investito da un rastrellamento, nel novembre 1943, furono i monti della Valtiberina toscana ai due lati del Tevere, tra Caprese Michelangelo e il passo di Viamaggio: alture sulle quali si erano nascosti ex internati slavi ed ex prigionieri alleati.

In quei mesi, minacce e ritorsioni raggiunsero lo scopo di incrementare il numero dei richiamati che si presentarono entro i termini prefissati. La grande maggioranza dei giovani restò tuttavia alla macchia. Solo una parte di essi confluì nelle formazioni partigiane. Le montagne altotiberine e la solidarietà della popolazione rurale offrivano molteplici possibilità per imboscarsi anche a chi preferiva semplicemente restare nascosto. Venanzio Gabriotti si rese conto che era soprattutto il rigetto della guerra nelle campagne ad alimentare la renitenza di massa: “La campagna non si presenta, ma qui la cosa diviene grave, perché la maggior parte non lo fa per idealità, ma perché stanca della guerra; non si presenta né con l’esercito repubblicano né si presenterà con quello di Badoglio”. È però indubbio che proprio la presenza sulle stesse montagne di diverse bande partigiane, molto attive nel lavoro di propaganda, incoraggiò allora tanti giovani a rifiutare la chiamata alle armi e al lavoro obbligatorio.

In quel marzo la situazione era così fluida da rendere difficile per chiunque averne un quadro esauriente. Ne offre una dimostrazione proprio il diario di Gabriotti. Sapeva che erano “molti” i giovani decisi a non rispondere ai bandi e che i “cosiddetti ribelli” operavano in varie zone. Però solo il 18 marzo riuscì a capire meglio quanto stava succedendo: “[Il] pomeriggio ho avuto notizie importanti su movimenti, che procedono bene. Finalmente la cosa prende una piega organica”. Ebbe allora un incontro nel vescovado tifernate con Aldo Bologni, Amedeo Mastriforti, Giuseppe Nicasi e Aldo Pacciarini, che gli illustrarono lo sviluppo del movimento ai due lati del Tevere e gli chiesero di fungere da punto di riferimento di tutte le bande.

Nell’insieme della valle le formazioni partigiane avevano ancora seri problemi, sia di mera sopravvivenza alla macchia, sia di organizzazione militare. L’armamento era raccogliticcio e inadeguato, il vettovagliamento così scarso da costringere a vivere alla giornata. I nuclei antifascisti urbani potevano garantire solo un modestissimo sostegno e mancavano stabili ed efficaci collegamenti con i comitati di liberazione provinciali per delineare una strategia di lotta di ampio respiro. Anche localmente i rapporti fra i vari gruppi erano praticamente inesistenti: ciascuno restava rintanato nel territorio dove aveva trovato rifugio, con preoccupazioni esclusivamente difensive. Eppure le bande che si stavano costituendo o rafforzando tra Anghiari e l’Alpe di Catenaia, sull’Alpe della Luna, sui monti tra le valli del Cerfone e del Nestoro e sull’Appennino a oriente del Tevere rappresentavano per tedeschi e fascisti una latente insidia e una pericolosa sfida, sebbene allora ne sopravvalutassero la consistenza e la pericolosità militare. Per il semplice fatto che esistevano, sfuggivano ai rastrellamenti, ingrossavano le loro file, godevano dell’appoggio della gente rurale, tenevano sulle spine i presidi fascisti dei centri rurali e minacciavano vie di comunicazione di importanza strategica, i “ribelli” smentivano quanto il regime tentava di esibire: la sua solidità, la certezza nella vittoria, la convinzione di poter schiacciare ogni forma di opposizione.

Lo stemperarsi dei rigori dell’inverno creò le condizioni perché il movimento partigiano potesse passare gradualmente all’azione. Si intrecciarono agguati e piccoli attacchi per appropriarsi di armi, requisizioni per procacciare cibo e vestiario e incontri sempre più frequenti tra esponenti delle varie bande e con emissari dei comitati di liberazione per concordare linee operative comuni.

Il Notiziario della GNR così descrisse lo stato delle cose alla fine di marzo nella provincia di Arezzo: “La situazione della sicurezza pubblica nel territorio della provincia si è molto aggravata avendo i ribelli, in numero di circa 3.000, intensificata la loro attività simultaneamente nel Casentino, in Val Tiberina e in Valdarno. Già vari distaccamenti della GNR sono stati assaliti e i militi disarmati. Atti di sabotaggio vengono continuamente commessi e interi paese sono stati presi d’assalto, senza che le esigue forze della GNR abbiano potuto opporsi. Così stando le cose, non è impensabile che i ribelli mettano in esecuzione il proposito, già manifestato, di calare addirittura su Arezzo”.

In effetti sul finire del mese di marzo le bande partigiane si fecero vive con un ampio ventaglio di azioni sul versante toscano dell’Alta Valle del Tevere. La stessa GNR dette notizia che il 28 marzo, a Badia Tedalda, una sua pattuglia formata da un brigadiere e due militi era stata “improvvisamente aggredita da numerosi ribelli” e costretta a cedere le armi. In realtà autori dell’aggressione non erano che tre partigiani, armati semplicemente di un moschetto, una rivoltella e una bomba a mano, giunti lassù in missione addirittura da Monte Favalto nonostante l’alta coltre di neve. L’episodio destò molto scalpore in paese, perché era giorno di mercato. Poi il piccolo nucleo partigiano, guidato da Aldo Donnini, si rese protagonista di un’incursione a Lamoli, dove incendiò la Casa del Fascio e distribuì alla popolazione lardo, marmellata e vestiario. Nella zona di Sestino, tra il 15 e il 23 marzo dei “ribelli” spararono colpi di pistola contro un maestro elementare fascista e prelevarono denaro e generi alimentari dalla casa di un sacerdote.

Dall’altra parte del Tevere, sul versante altotiberino del territorio cortonese, la banda di Guerriero Baffo si spinse da Monte Santa Maria fino a Teverina (Cortona) per disarmare il piccolo presidio di carabinieri e di fascisti. Scrisse Aldo Donnini: “Partiamo in 13. In tutto abbiamo 5 moschetti, ed il resto tutti fucili da caccia”. Dopo aver tagliato i fili del telegrafo, i partigiani intimarono la resa ai militi nella caserma, ma dovettero ingaggiare un breve scontro a fuoco e lanciare all’interno un paio di bombe a mano per piegare la resistenza del comandante. Il bottino dell’incursione fu inferiore alle attese – pochi moschetti e rivoltelle e tre biciclette – ma il successo dell’azione rinforzò l’autostima della banda, al suo primo cimento militare.

A poca distanza, nel paese di Mercatale, all’imbocco della valle del Niccone, pochi giorni prima erano stati rinvenuti dei manifestini dattiloscritti che rivelavano l’impegno propagandistico profuso dagli antifascisti. Contenevano slogan del tipo “W L’Italia libera”, “Abbasso i tedeschi” e “W Badoglio” e testi che inneggiavano alla resistenza: “Italiani! Per che fine combatterono Garibaldi, Mameli, Mazzini e tanti altri? Per cacciare i Tedeschi dall’Italia. A ciò con il sacrificio di tanti italiani eravamo riusciti. Ma un uomo, Benito Mussolini, ha riconsegnato ad essi la nostra patria. Sorgiamo e riscattiamola”; “Contadini. Non consegnate i vostri prodotti agli ammassi. Vendeteli (senza approfittarvi) agli italiani vostri fratelli. Tutto per gli italiani. Niente per i tedeschi”. Sul retro di uno di essi, la firma: “I partigiani dell’Umbria”.

 

 

Per il testo integrale, con le note e le fonti delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.