La repressione del movimento partigiano a marzo

Una durissima stretta repressiva anti-partigiana prese corpo nel mese di marzo. Per dimostrare che non lanciavano vuote minacce, le autorità fasciste dettero ampia diffusione ad avvisi che annunciavano le fucilazioni eseguite. Il Capo della Provincia di Perugia Armando Rocchi inondò i Comuni di tali comunicazioni, ordinando l’immediata affissioni di manifesti. Il 9 marzo fu resa nota l’esecuzione di un agricoltore di Montecastelli Bivio, “perché trovato armato abusivamente di fucile”; l’indomani di otto partigiani catturati armati; il 16 marzo di un disertore e di tre renitenti di Deruta, “tutti conniventi con bande di partigiani”; il 17 marzo di Mario Grecchi, “per omessa consegna di armi, aggressione di soldati tedeschi ed attività partigiana”; il 28 marzo dei fratelli Ceci di Marsciano, “mancanti alla chiamata alle armi”; alla fine del mese dei nove partigiani fucilati a Villa Santinelli di San Pietro a Monte. Uno degli ultimi avvisi si concludeva con queste parole: “Solo per coloro che si presenteranno spontaneamente ci sarà della pietà”.

Non vi era certo traccia di pietà nelle disposizioni che Armando Rocchi trasmise ai Comuni per vietare ogni forma di cerimonia funebre per i fucilati:

“Mi viene riferito che i tumuli dei ribelli o dei mancanti alla chiamata, fucilati in esecuzione alle vigenti disposizioni di legge, vengono giornalmente ricoperti di fiori, non soltanto dai famigliari ma anche ad opera di ignoti che intendono, naturalmente, dimostrare con tale mezzo i loro sentimenti contrari al nostro movimento di riscossa per la rigenerazione della Patria. Si tratta di subdole manifestazioni non solo antifasciste, ma soprattutto antinazionali, mascherate sotto l’aspetto della manifestazione di sentimenti pietistici che – per essere rivolti contro banditi e traditori della patria – non possono assolutamente essere tollerati. Dispongo quindi che sia assolutamente vietato di deporre corone, fiori, ceri, Messe di requie e omaggi di qualsiasi genere sulle tombe di coloro che sono stati puniti con la morte per aver tradito la Nazione in guerra”.

Sul piano militare, crescevano le preoccupazioni dei tedeschi per l’attività delle formazioni partigiane nelle loro retrovie. Il 17 marzo 1944 Kesselring raccomandò di accrescere la vigilanza nei “territori resi pericolosi dalle bande”, vietando ai convogli di attraversarli di notte. Nel contempo venne accelerata la costituzione di “gruppi d’impiego pronti all’allarme”, reparti scelti in grado di intervenire con prontezza ed efficacia.

Di lì a pochi giorni due grandi rastrellamenti lambirono l’Alta Valle del Tevere. Il primo tentò di prendere in trappola i partigiani della zona di Cantiano, sull’Appennino marchigiano. Negli aspri scontri che divamparono sotto la neve il 25 marzo tra Cantiano e Frontone, i partigiani italiani e slavi delle formazioni “Fastiggi” e Pisacane”, poi confluite nella Brigata Garibaldi “Pesaro”, dettero prova di valore e seppero respingere il nemico. Nella cosiddetta “battaglia di Vilano”, un’ottantina di partigiani tennero testa a reparti nazi-fascisti dieci volte superiori per numero. I resoconti storici della “Pesaro”, che danno molto risalto a questo successo, non fanno alcun cenno alla partecipazione ai combattimenti di partigiani della “San Faustino”. Eppure anche la formazione umbra asserì di aver dato il suo contributo in quella che chiamò “battaglia di Serramaggio”, che per collocazione geografica e modalità sembra coincidere con quella di Vilano. Insieme ai suoi uomini allora dislocati a Morena vi era il console americano Orebaugh, che inneggiò alla “grande vittoria morale” dei partigiani, per “avere intrapreso la battaglia con forze molto inferiori ed avere inflitto pesanti perdite al nemico con pochi uomini e scarse munizioni”.

Il 27 marzo un reparto corazzato di granatieri tedeschi strinse in una morsa il territorio tra Gubbio, Scheggia e Sigillo. Da un punto di vista militare non sortì alcun effetto, perché non sbaragliò alcuna banda partigiana. Tragico invece il prezzo pagato dalla popolazione: il numero delle vittime varia a seconda delle fonti, ma si trattò comunque di una strage di rilevanti proporzioni. Luciana Brunelli e Giancarlo Pellegrini (Una strage archiviata. Gubbio 22 giugno 1944 cit., pp. 72, 73, 81, 103, quantificano in 72 le vittime complessive dell’operazione repressiva, con 57 persone fucilate sul posto il 27 marzo e 8 giovani giustiziati l’indomani. La “guerra ai civili” da parte dei tedeschi era iniziata. Le autorità fasciste non seppero interporsi per proteggere la popolazione innocente dalla montante violenza repressiva. Il Capo della Provincia di Perugia si limitò a diffondere un avviso che indicava il comportamento da tenere durante le operazioni anti-partigiane: “Ad evitare […] inutile spargimento di sangue durante lo svolgersi di azioni di rastrellamento ciascuno deve rimanere ove si trova perché nulla ha da temere, ma senza nascondersi e tanto meno fuggire per non destare impressioni di sottrarsi alle ricerche ed esporsi di conseguenza al fuoco dei reparti operanti”.

Il rastrellamento nell’Eugubino fu condotto da una task force della XIV Armata germanica composta dal 1° battaglione del 20° reggimento di polizia delle S.S. e dal 2° battaglione del 3° reggimento “Brandenburg”. Considerato uno dei migliori reparti per tali mansioni, e per ciò dispiegato da Kesselring anche per rastrellamenti nell’Aretino, il “Brandenburg” agiva in collegamento con il Battaglione M delle camicie nere italiane “XI Settembre”. Tali unità sarebbero state dispiegate anche in successive operazioni, aggregandovi al bisogno altri reparti.

 

Vicende partigiane sull’Appennino altotiberino alla fine di marzo

Attuando una dura repressione, tedeschi e fascisti speravano di poter estirpare sul nascere un movimento partigiano di cui non potevano non costatare la fragilità militare, la disorganizzazione e la frammentarietà. Ma le loro aspettative andarono deluse. Da un lato sottovalutarono sia il vincolo di solidarietà che legava gli uomini alla macchia e la popolazione rurale, sia la determinazione di quanti avevano scelto di combattere il regime e l’esercito germanico di occupazione. Dall’altro lato, proprio in virtù della loro autonomia operativa e del loro insediamento in un territorio molto vasto, le bande dettero propria di una considerevole mobilità, che permetteva di sfuggire ai rastrellamenti, di colpire anche in luoghi distanti da dove erano insediate, di mostrare una vitalità complessiva che in qualche modo compensava, e talvolta celava, le difficoltà contingenti di singole formazioni. In quel periodo il movimento partigiano riusciva dunque a trasmettere una sensazione di forza ben superiore all’effettiva.

 

Per il testo integrale, con le note e le fonti delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.