Il commizzario politico Dario Taba
Partigiani della "San Faustino" in trasferimento.

La riorganizzazione della “San Faustino” dopo il rastrellamento

Il rastrellamento nazi-fascista era riuscito a scompaginare seriamente le bande, ma non ad annientarle. Don Marino Ceccarelli rievocò il clima del momento: “[…] tutto era cambiato: qualche nuovo sbandato di altre zone entrava a far parte delle nostre file, i più vili si erano presentati alle autorità di allora, ovunque si trovava diffidenza, anche nel dare vitto ai partigiani, dopo il tanto spavento al passaggio tedesco. Soffrimmo in quei giorni in modo indicibile e soltanto un ideale ci dava forza nelle sofferenze”. Don Pompilio Mandrelli così ricordò l’incontro con Stelio Pierangeli, il comandante della “San Faustino”, il 18 maggio, quando ormai l’operazione repressiva si era esaurita: “Il capitano ha un’espressione che rivela tutta l’angoscia e le sofferenze patite nei giorni trascorsi: ‘Dopo quindici giorni è la prima casa che si apre per accoglierci’”.

Il comando della “San Faustino” si ricompattò a Sant’Andrea, non lontano da Caimattei. La riorganizzazione della brigata fu problematica e con risultati diseguali. Se i pietralunghesi uscirono dai loro nascondigli nei boschi e si riaggregarono, i montonesi di Capanne non riuscirono a ridare consistenza al loro gruppo. A Morena, don Marino Ceccarelli poté ancora contare su una ventina di fedelissimi; continuò a fungere da punto di riferimento soprattutto per gli eugubini. I tifernati tornarono a Montebello, dove i tedeschi avevano appiccato il fuoco alla casa che li ospitava; ma i contadini erano riusciti a spegnerlo e a salvare lo stabile. Seppero allora della fucilazione di Venanzio Gabriotti e la percepirono come una grave perdita. Veniva loro a mancare non solo il punto di riferimento in città, ma anche la persona che nascostamente aiutava le famiglie dei più indigenti. Affermò Pasqualino Pannacci: “Gabriotti ci diceva di star tranquilli perché avrebbe lui stesso provveduto a far pervenire alle famiglie dei contributi, degli aiuti finanziari. La notizia della sua morte colpì soprattutto quei giovani le cui famiglie ricevevano costanti aiuti da lui. Alcuni fecero ritorno a casa demoralizzati, perché temevano che le proprie famiglie non avessero più fonti di sostentamento”.

Intanto, preoccupato per la crisi di una formazione partigiana su cui faceva gran conto, il CLN della provincia di Perugia aveva inviato come commissario politico della brigata Dario Taba, comunista, uomo di notevole esperienza politica e organizzativa, già comandante del nucleo iniziale della “Innamorati” a Monte Malbe. Poco dopo lo aveva affiancato, come vice-commissario, un altro comunista perugino, Riccardo Tenerini. Taba raggiunse la zona quando ancora lo sbandamento era generale. Scrisse in un rapporto: “Gli stessi ufficiali erano senza contatto, senza stabile dimora; per la verità il Pierangeli faceva degli sforzi per mantenere contatti, ma senza alcun risultato pratico”. Nel primo incontro con il comando della “San Faustino”, appena poté riunirsi, Taba si scontrò contro quella che definì una “mancanza assoluta di qualsiasi comprensione politica”, tanto che il “ten. Vittorio” [Biagiotti] non riconosceva alcuna autorità al CLN” e si affidava solo alle indicazioni di ufficiali inglesi alla macchia nel Pietralunghese, che “gli avevano dato ordine di nascondere armi, uomini e star fermi”. Anche Tenerini fu colpito da quella che percepì come una seria criticità della brigata: “Mancava una vera direzione politica, c’era solo una direzione militare”; e l’impreparazione politica comportava “la mancanza di una visione più generale da parte dei partigiani”. Soltanto Pierangeli e Livio Dalla Ragione – secondo Tenerini – avevano capito l’importanza politica e strategica di un forte rapporto con il CLN.

L’opera di ricostituzione della brigata, di coordinamento delle bande e di rilancio della lotta armata riprese comunque prontamente. Taba si giovò del pieno sostegno di Pierangeli (“mi fu ottimo collaboratore”). Insieme al nucleo di Montebello, riuscì a rimettere insieme dai 50 ai 60 uomini, il che – sottolineò – “fu una perdita di effettivi del 60% causata dallo sbandamento provocato dal rastrellamento nemico”.

Per quanto avvenuta “lentamente e faticosamente”, la riorganizzazione della “San Faustino” divenne realtà. Da Perugia giunse anche il sottotenente Virgilio Riccieri, che assunse il comando della formazione composta prevalentemente da pietralunghesi. Ebbe come commissario politico Riccardo Tenerini. Nel nuovo inquadramento formale della brigata, il nucleo di Pietralunga divenne il Battaglione “Vittorio Veneto”. Vi mantennero ruoli di comando Tullio Benigni, “Pinetto” Cancellieri e Giovanni Valcelli. Gli altri battaglioni erano il “Piave”, l’“Aldo Bologni” e il “Venanzio Gabriotti”. Riccieri, appena ebbe riordinato il suo battaglione, descrisse con un certo compiacimento l’accampamento in un bosco di pini in cima a un colle: “Le tende tutte bianche erano confezionate con la stoffa dei paracaduti con cui erano state lanciate dagli aerei le armi e le munizioni”. Poteva contare su circa 60 partigiani effettivi e su una decina di ausiliari e l’armamento era “abbondante”: “Si disponeva di un centinaio di armi automatiche singole, la maggior parte alleate (Sten, Thompson), ma anche italiane (moschetto automatico Beretta) e di armi automatiche di reparto (fucili mitragliatori), tutte dotate di abbondante munizionamento, nonché di bombe a mano italiane e alleate in abbondanza”. Non esistevano problemi di vettovagliamento: “Ogni giorno le donne di una casa colonica nei pressi dell’accampamento potevano sfornare una trentina di file di pane. Ci si provvedeva della carne mediante la requisizione di bestiame nella zona che ne era ben provvista”.

Anche a livello popolare si ebbe la percezione di una rapida ripresa del movimento di Resistenza. Valgono a tal proposito le parole del parroco di San Donato di Castelguelfo: “I partigiani erano tornati a scorrazzare per le vie; erano anzi aumentati di numero”; e ancora: “[…] si aveva la generale convinzione di essere difesi dai partigiani”. Tuttavia i rapporti con il CLN provinciale rimasero precari, condizionati dalla diffidenza nei suoi confronti del comando della brigata. Pierangeli la espresse apertamente. Una riunione chiarificatrice svoltasi a Morena tra gli emissari della giunta militare del CLN, il comando della “San Faustino” e una non meglio precisata “delegazione alleata” nel frattempo giunta nella zona portò comunque a far prevalere lo spirito unitario. Come affermò Taba, “a tutte le rimostranze d’indole personale e di gretta mentalità furono opposte le ragioni superiori dell’interesse nazionale, e qualsiasi corrente politica doveva essere subordinata a questo scopo”. Fu inoltre raggiunta un’intesa per far convergere, al momento opportuno, le forze della brigata verso Perugia, per liberare il capoluogo prima dell’arrivo degli Alleati.

Per meglio raccordare la “San Faustino” con gli Alleati, giunse in missione una squadra paracadutata delle forze armate americane comandata dal sotto-tenente piemontese Camillo Chiesa. Così avrebbe riferito in una sua relazione: “Compiuto corso paracadutisti ad Algeri, di sabotaggio e di organizzazione ad Arcofelice (Pozzuoli); forniti di 2 radio, la notte del 31 maggio fummo gettati col paracadute sul Monte Nerone fra Gubbio e Città di Castello. Prendemmo contatto con la 1a Brigata proletaria d’Urto di circa 170 uomini comandati dal cap. Pierangeli di Città di Castello e con la 5a Garibaldi di circa 700 uomini comandati dal cap. Antonini. Collegati con l’8a armata a mezzo di staffette, fornimmo a questa piano della linea Gotica”. Insieme a Chiesa vi erano il sottufficiale Giuseppe Forleo e il radiotelegrafista Franco Pastore.

 

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.