Trasporto delle botti dal magazzino di via Oberdan (dove è stata ripresa la foto) alla stazione ferroviaria.
Piantagione di tabacco altotiberino.
Sviluppo dell’irrigazione delle piantagioni di tabacco negli anni ’30.
Trebbiatura ed essiccazione del seme di Virginia Bright nell’aia di un podere.

La coltura del Bright su vasta scala

 

Nel primo anno si ripartirono fra i proprietari 20 ettari di Bright per la consegna allo stato secco; il prodotto dei restanti 35 fu consegnato allo stato verde al magazzino, attrezzato con sei nuove celle di essiccazione. Ai promettenti risultati conseguiti dalla Fattoria nella campagna del 1932, fecero riscontro gli altrettanto soddisfacenti esiti dell’esordio con il Bright da parte delle altre aziende altotiberine: il Consorzio Tabacchicoltori di San Giustino e la “Boccolini” di Umbertide ne coltivarono rispettivamente 16 e 5,25 ettari.
La riconversione produttiva da Kentucky a Bright poté pertanto procedere speditamente. Nel giugno del 1936, quando la superficie per il Bright era stata portata a 120 ettari, l’assemblea dei soci della Fattoria ribadiva la giustezza della scelta fatta e non nascondeva l’orgoglio per il ruolo svolto: “Tale trasformazione importa una spesa ingentissima, che viene posta a carico di tutti. L’azienda realizza così la piena solidarietà fra coltivatori di Kentucky e coltivatori di Bright, realizzando così quella che è la caratteristica fondamentale della Fattoria”. Nell’aprile dell’anno successivo l’assemblea ebbe l’autorizzazione a trasformare altri 200 ettari da Kentucky a Bright in un quinquennio e prese atto con compiacimento dell’accresciuto rilievo acquisito nel tessuto economico e sociale di Città di Castello. Il cambiamento di cultura, poiché la consegna al magazzino delle due varietà avveniva in periodi diversi, dette infatti l’opportunità di impiegare le maestranze da agosto ad aprile, mentre prima lavoravano da dicembre a giugno. E non si trattava solo di due mesi di lavoro e di salario in più. La leggerezza del Bright rispetto al Kentucky e le sue foglie più piccole e numerose richiedevano l’impiego di maggiore mano d’opera, soprattutto per la cernita. Il numero dei dipendenti dunque lievitò, fino a raggiungere la quota di 650-680 nel 1939. Due anni dopo lo si sarebbe quantificato in circa 700.
Una massa di dipendenti così imponente per gli standard locali fu inquadrata nell’azienda coniugando le esigenze della produttività e di una severa disciplina con una peculiare attenzione ai bisogni assistenziali e associativi. Vi era l’esplicito intento di instaurare un clima “famigliare”. La remunerazione avveniva, per quanto possibile, a cottimo. Quanto all’organizzazione del lavoro, la si descriveva così nel 1932: “I sistemi di controllo adottati dalla Direzione permettono di constatare giorno per giorno il rendimento dei reparti e dei gruppi e di verificare al momento della formazione delle botti se tutta la lavorazione si sia svolta regolarmente, individuando i responsabili delle eventuali manchevolezze. Le maestranze hanno così la consapevolezza che non è lecito nella Fattoria lavorare fiaccamente o lavorare male senza che segua la sanzione, e hanno interesse a compiere il loro dovere, come il colono, che sconta con la minor rendita il lavoro fatto tardi o fatto male. I licenziamenti e le riassunzioni del personale sono in stretta relazione con il rendimento dell’operaio, e vengono effettuati con criteri obiettivi, avendo di mira l’interesse dell’azienda e mantenendo il massimo affiatamento con le organizzazioni sindacali e politiche del Regime”.