Partigiani della “San Faustino”.
Il punto di avvistamento antiaereo di Monte Fumo attaccato dai partigiani.
Don Pompilio Mandrelli

La Brigata “San Faustino” in azione ad aprile

L’arciprete di Pietralunga don Pompilio Mandrelli raccontò che il 10 aprile 1944, per l’affollato funerale del padre del partigiano Giuseppe Urbani, si presentò al cimitero una pattuglia armata dei suoi compagni di lotta, che rese omaggio alla salma e poi si allontanò. Il fatto che presenziassero alla cerimonia tutte le autorità del paese rivela quanto gli uomini alla macchia fossero arrivati al punto di osare, vuoi per il sostegno della popolazione, vuoi per la tolleranza, se non proprio la complicità, di almeno parte delle stesse autorità. Qualche giorno dopo degli elementi del distaccamento della GNR di Pietralunga furono bersaglio di colpi di moschetto sparati dal bosco e un’autocorriera venne fermata da quattro uomini, che si impossessarono delle divise di due militi.

I fascisti sapevano che nella zona stazionava una “grossa banda partigiana” e si rendevano conto di non poter frapporre alcuna resistenza con le poche forze di cui disponevano in una zona così appartata dell’Appennino. Destò vasta eco l’azione congiunta attuata ad Apecchio l’11 aprile dalla “San Faustino” insieme alla formazione “Panichi” e ai partigiani slavi e marchigiani delle bande “Pisacane”, “Fastiggi” e “Stalingrado”. Così la descrisse Lando Aluigi: “Con un centinaio di compagni […], disarmammo tre carabinieri, e deportando via tutte le armi a loro appartenenti della caserma. Nel medesimo tempo andammo al Consorzio Agrario, prendendo un quantitativo sufficiente per noi di grano, e l’altro l’abbiamo distribuito alle famiglie dello stesso paese; perché altrimenti i tedeschi avrebbero deportato via tutto per il loro bisogno”. Le autorità di polizia ammisero che “un forte nucleo di ribelli armati”, dopo aver sabotato la linea telegrafica e telefonica, asportarono “col concorso della popolazione” circa 3.000 quintali di grano e una grande quantità di biada e di farina. Dopo qualche giorno i partigiani marchigiani, compresa la banda Panichi, svuotarono pure il silos di Serravalle di Carda, sempre in territorio apecchiese.

La crescente aggressività partigiana suscitò allarme anche nei fascisti di Città di Castello. Dopo che a Ripa “un considerevole numero di armati” aveva requisito e distribuito ai contadini una cospicua quantità di biancheria, scrissero preoccupati a Perugia: “[…] in considerazione che con frequenza la zona è visitata dai ribelli che scendono dai monti di Pietralunga, si riferisce essere indispensabile procedere ad azione di rastrellamento […]”.

l regime tentò addirittura una mediazione con la Brigata “San Faustino”. Chiese a Mandrelli di organizzare un incontro tra rappresentanti fascisti e partigiani. Ebbe luogo il pomeriggio del 23 aprile a San Felice, sul Monte Macinare. Vi giunse anche don Marino Ceccarelli, conducendovi l’allora comandante della cosiddetta “banda di Cantiano”, Renato Vianello (“Raniero”). Poi i sacerdoti lasciarono sole le due delegazioni. Ciò che propose l’ufficiale delle SS italiane Calocci ebbe poi a riferirlo Mario Bonfigli, vice-comandante della “San Faustino”: “Ci offriva amnistia piena, voleva che cessassimo la nostra azione che si risolveva in italiani contro italiani. Gli facemmo sapere che non saremmo scesi noi dalle nostre posizioni ma avrebbero dovuto venir loro da noi, e li avremmo accolti a braccia aperte”.

Il confronto si concluse dunque con un nulla di fatto. Seguì un episodio increscioso. Con fare minaccioso, gli uomini di “Raniero” trattennero il podestà di Pietralunga Italo Fabbri, che faceva parte della delegazione fascista. A quel punto Mandrelli, che si era fatto garante del rispetto della sicurezza di tutti i convenuti all’incontro, affermò che avrebbe in tutto condiviso la sorte di Fabbri. Il rigoroso atteggiamento del sacerdote permise di chiudere la vicenda senza spiacevoli conseguenze.

Verso la fine di aprile la “San Faustino” si sentiva pronta per alzare il livello dello scontro. Tra il 21 e il 23 aprile prese di mira il treno della ferrovia Appennino-Centrale alla stazione di Mocaiana, disarmando dieci fascisti, e la caserma dei vigili del fuoco di Gubbio, dove – secondo fonti del regime – provocò una vittima. Il 26 aprile attaccò il posto di avvistamento anti-aereo di Sant’Antonio, sul Monte Fumo, presso Bocca Serriola, costringendo i militi alla resa e portandosi via divise, viveri e materiale militare. Ci sarebbe tornata una settimana dopo, con eguali risultati. Il massimo gerarca fascista tifernate Orazio Puletti si affrettò a comunicare riservatamente al Capo della Provincia che i ribelli avevano “per ben due volte provveduto a lasciare in mutande e camicia i militi”. Il 28 aprile fu ancora fermato il treno della Ferrovia Appennino Centrale; alcuni militari vennero presi in ostaggio e liberati dopo essere stati spogliati delle divise.

Quello stesso 28 aprile toccò a Pietralunga. Un piccolo nucleo di partigiani giunse in prossimità del paese da Cairocchi e la notte, benché non fosse nei programmi iniziali, decise di tentare il disarmo della caserma dei carabinieri. Erano appena 5 o 6, ma con la complicità di qualcuno del posto fecero credere che l’abitato era circondato da 500 uomini. Per togliere il comandante della caserma da ogni imbarazzo – i superiori avrebbero potuto imputargli la resa senza combattere – inscenarono una finta battaglia. Poi il disarmo dei militi e l’asportazione di tutto ciò che poteva essere utile. A Perugia giunse una comunicazioni dai toni drammatici sulla situazione a Pietralunga: “Paese balia partigiani […]. Numero ribelli imprecisato, aggiransi su parecchie centinaia”.

In effetti nel Pietralunghese i partigiani sembravano prendere il sopravvento. Lo confermavano anche le requisizioni di beni di prima necessità da essi effettuate senza che le forze fasciste riuscissero minimamente a porvi freno. Già dal 5 al 10 aprile ce n’erano state a San Benedetto Vecchio, Caimattei e Montemaggiore, rispettivamente nei comuni di Gubbio, Pietralunga e Città di Castello; gran parte del grano venne distribuito agli abitanti della zona. Poi, secondo le stesse fonti fasciste, dal 25 aprile al 13 maggio si susseguirono altre otto requisizioni nel territorio a oriente del Tevere tra Città di Castello, Bocca Serriola e Montone, con sottrazione di bestiame, formaggi, carne insaccata, olio, vino, vestiario, biancheria e denaro. Sia per le frequenti distribuzioni alla popolazione del grano sottratto ai magazzini, sia perché di regola i prelevamenti gravavano sui proprietari terrieri, tali azioni partigiane suscitavano vasta simpatia anche in questa zona.

 

Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.