Timbro della Brigata.
Stelio Pierangeli, ufficiale nei Balcani.
Partigiani della "San Faustino".

La nascita della Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino”

Nel Pietralunghese, l’arresto di Bonuccio Bonucci a San Faustino e la caccia agli altri promotori della banda non ne aveva provocato la crisi irreparabile. Nel rifugio temporaneo di Morena non solo si decise di proseguire la lotta, ma si cominciò a lavorare a un coordinamento con gli altri gruppi partigiani della zona. Proprio in tale prospettiva, assunse il comando della formazione il tifernate Stelio Pierangeli, già capitano nei Balcani. Conosciuto come persona “prudente, equanime, attenta”, Pierangeli seppe prendere il mano le redini di un movimento ancora frammentato e disorganizzato e trasformarlo in quella che divenne la Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino”. Disse di lui Livio Dalla Ragione: “Stelio Pierangeli era la persona più preparata, più intelligente, anche politicamente, perché aveva vissuto insieme al padre [Giulio], il più grande politico che abbiamo avuto a Città di Castello. Capo carismatico per eccellenza, con i suoi pregi e difetti era indiscutibilmente l’uomo giusto per quel momento: sia fisicamente, sia intellettualmente, sia nel disbrigare le sue mansioni di comando, sia per tenere a bada tutti questi gruppi”. Per quanto di poche parole, così da apparire caratterialmente un po’ troppo chiuso, dette dimostrazione di valore, di intelligenza e di competenza militare e godette della fiducia dei suoi partigiani. Si dette il nome di battaglia di “Geo Gaves”.

Alla scelta di Pierangeli concorse anche il comitato di liberazione perugino. Fu il suo esponente Ferdinando Rosi Cappellani a rintracciarlo a Città di Castello il 2 marzo per proporgli l’incarico. In quella circostanza Rosi Cappellani conobbe per la prima volta Venanzio Gabriotti e si rese conto di come nel Tifernate si parlasse concretamente di Resistenza: “Indi usciamo ed incontriamo […] un signore di mezza età, simpatico nell’aspetto e cordiale nel tratto; Geo Gaves me lo presenta: è il col. Venanzio Gabriotti […] Mi colpisce l’entusiasmo con il quale Gabriotti parla del movimento clandestino, delle bande, dei rifornimenti di viveri e di mitragliatrici da portare in montagna”.

La costituzione ufficiale della Brigata fu sancita di lì a qualche giorno. La testimonianza di Livio Dalla Ragione riporta al clima politico ed emotivo del momento: “Un giorno vennero a Montebello Pierangeli e Bonfigli e chiesero di coordinare i gruppi, pur lasciando a ciascuno la propria autonomia. […] Nacque allora la Brigata. Il gruppo di Perugia era di tendenza liberale. Pierangeli insistette che la Brigata si chiamasse ‘Proletaria d’Urto’; loro la volevano chiamare solo Brigata. Per noi di Montebello, quelli di Perugia, i Biagiotti, i Bonfigli, i Beppe Bonucci, rappresentavano un gruppo d’èlite, l’aristocrazia. Noi eravamo dei ‘freghi’ [ragazzotti]. E poi non ci si poteva ancora fidare, non ci si conosceva; ecco perché volemmo restare autonomi. Solo dopo siamo diventati amici, quando abbiamo cominciato a combattere insieme”.

Aderirono alla “San Faustino” le bande di Montebello, di Capanne, di Cairocchi e di Morena. La sede del comando fu posta a Caimattei e a Sant’Angelo, a sud-ovest del Monte Splendore.

La prima azione militare della “San Faustino” avvenne all’inizio di febbraio: un’imboscata a un convoglio tedesco da parte di una dozzina di uomini, tra i quali il console americano Orebaugh. Solo tre di essi impugnavano armi da guerra. In tali condizioni una vera e propria attività militare appariva del tutto prematura e si rivelò prioritario il procacciarsi, oltre che armi, beni di prima necessità per sopravvivere alla macchia.

Il 28 febbraio quattro persone, che si qualificarono per “ribelli stranieri”, asportarono cibo, vestiario e biancheria dall’abitazione di don Matteo Vannocchi, parroco di Carpini, presso Montone. Era l’avvio di un’ondata di requisizioni di beni di prima necessità che si sarebbe estesa a tutta la valle, protraendosi per l’intera primavera. Bollate dalla propaganda fascista come puro e semplice ladrocinio, le requisizioni vennero intese dalle formazioni partigiane come inevitabile mezzo per rifornirsi soprattutto di generi alimentari e di vestiario. Presero di mira i possidenti di campagna, talvolta accanendosi contro quelli che simpatizzavano per il regime. Proprio per questo sarebbero tornati a casa di don Matteo Vannocchi, in numero ben maggiore, portando via tutto quel che potevano. Il parroco, scrissero i carabinieri nel loro rapporto, aveva la colpa di “essere l’unico nella zona con sentimenti italiani” e “i ribelli lo apostrofarono infatti con la qualifica di fascista”. Sin dal principio tali scorrerie contribuirono a rafforzare la convinzione che il regime stesse perdendo il controllo della situazione nelle zone rurali. I carabinieri di Montone presero spunto dalle requisizioni subite da Vannocchi per ribadire pressantemente la richiesta dell’invio nel paese di un presidio della Guardia Nazionale Repubblicana, prima che la situazione si aggravasse ancora.

All’inizio di marzo diversi episodi allarmarono le autorità fasciste nella zona tra Città di Castello e Pietralunga. Particolarmente grave apparve l’attacco subito dai carabinieri di Pietralunga il 2 marzo, e così riferito dal loro comandante: “Due corrente ore 23 circa 80 ribelli attaccavano […] con bombe a mano et fucileria caserma Pietralunga. Componenti distaccamento reagivano respingendo attaccanti dopo mezzora combattimento senza subire alcuna perdita eccezione fatta lievi danni caserma et case vicine. Ignoransi perdite ribelli, solo notate chiazze di sangue piazzale antistante caserma”. In questa circostanza – e sarebbe avvenuto altre volte – carabinieri e fascisti sovrastimarono il numero dei partigiani e la loro effettiva forza, forse per poter meglio giustificare il loro insuccesso nel contrastarli.

In quei giorni crebbe la preoccupazione anche nel Tifernate. Il commissario prefettizio Orazio Puletti, nel denunciare requisizioni effettuate dai ribelli nella zona di Candeggio, sottolineò: “Tengo a rilevare che è la prima volta che ribelli si sono spinti in territorio di Città di Castello”. Il console americano Orebaugh raccontò nelle sue memorie di un attacco sferrato da partigiani della “San Faustino” il 4 marzo a un convoglio tedesco 3 km a sud-est di Città di Castello – vi sarebbero stati colpiti una decina di veicoli, sei dei quali incendiati – e di un’incursione a Gubbio, dove rimasero uccise due sentinelle germaniche. Orebaugh prese inoltre parte all’assalto contro la caserma della GNR di Scheggia, il 13 marzo. Il tentativo di sottrarre armi e munizioni non riuscì. Anzi, a parere del console fu un “totale fallimento” e si risolse in uno spreco di munizioni. La mancanza di armi e munizioni costrinse i partigiani a diradare le azioni e a limitarle a forme di sabotaggio: “[…] durante il mese di marzo” – sono ancora parole di Orebaugh – “intraprendemmo quasi quotidianamente atti di sabotaggio, ora banali, ora significativi”. La carenza di armi era tale che i partigiani si trovarono costretti a requisire anche fucili da caccia a piccoli proprietari di campagna: tra il 21 e il 22 marzo vi furono quattro episodi del genere nel Pietralunghese.

 

Per il testo integrale con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.