Pietro Gambuli, uno degli imputati nel processo.
Cartolina commemorativa di Gabriotti, con il suo appello contro ogni vendetta.

Il processo

Come si evince dalla documentazione processuale, l’istruttoria per accertare responsabilità penali per la morte di Venanzio Gabriotti fu avviata nell’immediato dopoguerradalle denunce del capitano Alberto Ivano Nardi, delle sorelle del fucilato e degli ex militi e poi partigiani Ubaldo Narducci e Amleto Bambini. Già nell’ottobre 1944 ebbero luogo gli interrogatori degli accusati che si trovavano in carcere: Remo Cancellieri, Fernando Baldinucci, Agostino Tavernelli. A dicembre dello stesso anno, dopo l’ulteriore circostanziata denuncia presentata dall’ex milite Ubaldo Narducci, venne interrogato Vincenzo Manganelli. Nel gennaio e febbraio 1945 furono raccolte gran parte delle memorie di chi in qualche modo era stato testimone della vicenda. Poi, tra maggio e settembre di quell’anno, gli interrogatori riguardarono Vasco Topini, Pietro Gambuli, Quintilio Caparvi e Giovanni Sanna. Quelli di Biagio Giombini, Emo Fiaschi e Dorando Pietro Brighigna ebbero luogo tra l’agosto e il novembre 1946.
Il procedimento penale, come scrisse il magistrato nella sentenza, ebbe “origine frammentaria”, perché costituito “dalla connessione di numerosi procedimenti iniziati, e talora in parte sviluppati, da diverse autorità giudiziarie contro singoli imputati e contro gruppi di essi”. Accorpò alla vicenda di Gabriotti altri fatti di sangue avvenuti nel territorio di Città di Castello e Pietralunga dal marzo al maggio 1944: le fucilazioni di nove partigiani a Villa Santinelli e di quattro giovani catturati alla macchia presso Montemaggiore.
Gli atti vennero prima trasmessi per competenza al Tribunale Militare Territoriale di Firenze (marzo-ottobre 1945), poi rimessi alla Corte di Assise di Perugia, infine (marzo-maggio 1946) ritrasmessi al tribunale militare fiorentino.
Per la vicenda Gabriotti, l’istruttoria riguardò l’ufficiale tedesco Hans Tatoni, gli ufficiali della GNR Pietro Gambuli, Dorando Pietro Brighigna, Quintilio Caparvi, Filippo Faro, Edoardo Scotti e Biagio Giombini; il sergente maggiore, Piermarino Gambacorta; i militi Franco Baccelli, Fernando Baldinucci, Gino Bizzarri, Vincenzo Manganelli, Bruno Ronconi, Teresio Prandi, Giovanni Sanna, Agostino Tavernelli e Vasco Topini. Però, diTatoni, Bizzarri e Scotti non si riuscì mai ad appurare l’identità certa, tanto da doverli “ritenere ignoti”; inoltre Ronconi, colpito da mandato di cattura, si rese latitante.
Gli altri fascisti inquisiti restarono detenuti per periodi diversi. Prandi e Tavernelli beneficiarono del provvedimento di libertà il 23 ottobre 1946, dopo circa un anno di prigione; Brighigna e Caparvi di lì a un mese.
Nel giugno del 1947 vennero rimessi alla Corte di Assise di Perugia gli atti processuali relativi a Baccelli, Gambuli, Baldinucci, Giombini, Manganelli, Sanna e Topini. Il pubblico ministero perugino ordinò l’immediata scarcerazione di Franco Baccelli e Vasco Topini, rimasti in carcere rispettivamente 20 e 26 mesi. Poi, a settembre, mise in libertà anche gli altri, per essere “venuti meno gli indizi di reità”. Giombini, tre mesi prima, aveva scritto al procuratore generale di Perugia ribadendo la propria innocenza e invocando che gli fosse “resa giustizia, mediante processo se necessario, in modo che abbia termine questo stato di incertezza, che sfibra gli animi e la mente”. Era stato arrestato nell’aprile 1945.
Intanto, tutti gli imputati avevano beneficiato dell’amnistia decretata il 22 giugno 1946. Si considerò certa la loro colpevolezza per il sostegno alle “operazioni militari dell’invasore”, per l’“attiva e continua opera di persuasione per ottenere l’arruolamento di cittadini italiani nelle file militari del sedicente governo repubblicano ed indurre i medesimi a combattere per l’ideologia nazista e la vittoria tedesca” e per l’“opera febbrile e indefessa [svolta] per ostacolare o prevenire ancora prima di combatterla in campo aperto l’organizzazione e l’attività partigiana”. Tuttavia tali reati erano stati estinti dall’articolo 3 del decreto.
Il Tribunale Militare di Firenze prosciolse Brighigna per la morte di Gabriotti nel marzo 1947. Il giudice istruttore affermò che l’ex comandante del presidio, “trasmettendo l’ordine di arresto passatogli dalle autorità tedesche e curando che l’esecuzione dell’ordine stesso avvenisse, ebbe parte essenziale nella cattura”; riconobbe però che non fu lui a condannarlo a morte e che non poteva prevederne “la triste fine”.
Nel giugno 1948 il tribunale fiorentino emise il giudizio a carico di Filippo Faro, detenuto da tre anni. Non lo ritenne responsabile della morte di Gabriotti. Lui affermò di non aver “partecipato” all’esecuzione capitale e nessun teste lo contraddisse. Il settimanale socialista tifernate «La Rivendicazione»commentò amaramente: “Quattro anni di istruttoria hanno finito per svuotare il processo di ogni significato […]. Mussolini ha pagato per tutti. Le figure dei nostri Morti splendono luminose nel ricordo. Quelle dei carnefici svaniscono”.
A rimanere sotto processo “per avere organizzato, diretto ed eseguito la cattura del tenente colonnello Venanzio Gabriotti che era il maggiore esponente del movimento partigiano della zona”, rimasero Caparvi, Gambacorta, Prandi e Ronconi. Il giudice bollò come “incerte, evanescenti, contraddittorie” le risultanze dell’istruttoria, senza “prove sufficienti ed univochecirca la sussistenza materiale dei fatti costituenti il reato di omicidio in questione”. Affermò inoltre di non poter considerare prova, né principio di prova, “il generico, vago e pericoloso, ‘si dice’ o ‘raccontano’ o ‘ho sentito dire’ o ‘corre la voce’ o la generale opinione”. Gli imputati furono quindi prosciolti.
Il processo, dunque, non riuscì a chiarire – né sembra che volle farlo – alcuni snodi di rilievo degli ultimi giorni di Gabriotti. Resta il fatto che le ritrattazioni di alcuni fascisti, per quanto abbiano contribuito a rendere vincente la strategia processuale degli imputati, non convincono affatto ai fini della ricostruzione storica. Né fu possibile – e chissà se mai lo sarà – sollevare quel residuo velo di ombre e contraddizioni che avvolge ancora la vicenda per la reticenza, o il calcolato occultamento della verità, da parte di alcuni protagonisti.

 

 

Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.