Il fallimento della liberazione di Perugia

Donati Guerrieri, azionista, e Angelucci, comunista, erano inviati dal CLN di Perugia per impartire un ordine preciso alla “San Faustino”: siccome gli Alleati stavano ormai avanzando celermente, bisognava assolutamente muovere la brigata verso il capoluogo, dove gli antifascisti si stavano preparando alla mobilitazione. La liberazione di Perugia prima dell’arrivo degli anglo-americani avrebbe assunto un rilevante significato politico, dimostrando in modo evidente la vitalità della Resistenza umbra. Nell’incontro con gli esponenti del CLN tra i ruderi della chiesa di Morena distrutta dai tedeschi, il comando della brigata – erano presenti Stelio Pierangeli, il commissario politico Dario Taba e Riccardo Tenerini – alla fine si trovò concorde nel mettere in atto il piano. Subordinò però la sua realizzazione all’approntamento, da parte del CLN perugino, di una “base di tappa” presso Monte Tezio per i partigiani che si sarebbero mossi dal Pietralunghese. Inoltre bisognava attendere che la “Montebello” si congiungesse al resto della brigata. Nel frattempo fu presa la decisione di avvicinarsi a Perugia, trasferendo gli uomini verso San Faustino.

L’ordine fu tuttavia contestato dai partigiani di Pietralunga e della formazione di Bruno Enei. Pierangeli e Taba tentarono di ricucire la frattura, ma riuscirono solo a convincere una ventina di uomini di Enei. I pietralunghesi, riluttanti a lasciare sguarnito il proprio territorio di appartenenza, ribadirono la loro contrarietà all’azione. L’ammutinamento rischiò di avere un esito drammatico. Il comando della brigata dette infatti disposizione di disarmare i ribelli. Antonio Benigni fu tra i partigiani incaricati di eseguire l’ordine: “Noi si chiuse la porta e uno rimase dentro con tutte le loro armi. E noi tre o quattro che eravamo rimasti di sotto si disse: ‘Mani in alto! Siete tutti disarmati, avete tradito perché non avete voluto accettare l’ordine imposto dal comando della brigata’”. Principali responsabili della sedizione furono considerati Tullio Benigni e Amedeo Cancellieri, detto “Pinetto”. “Ricordo” – sono ancora parole di Antonio Benigni – “che in un vano della stalla del podere di San Faustino dove eravamo gli fu fatto il processo. C’era chi parlava di pena di morte […]. Taba era un poco duro. Noialtri s’era più morbidi […]. La decisione fu attenuata, anche in riconoscimento dei servizi che fino a quel momento avevano prestato Tullio e ‘Pinetto’”. Taba avrebbe poi riferito come si concluse la vicenda: “Radunati dopo il disarmo tutti gli uomini e spiegato loro l’errore commesso, tutti furono convinti dello sbaglio e chiesero il riarmo, che fu concesso solo a coloro che ne erano veramente degni”.

La sera di quel giorno travagliato – di cui non si ha la data esatta, ma che ragionevolmente dovrebbe collocarsi tra il 16 e il 17 giugno – una staffetta da Perugia informò che ingenti truppe tedesche stazionavano nella zona prescelta come “base di tappa”. Il piano d’azione subiva dunque un contrattempo decisivo: la “San Faustino” non aveva forze sufficienti per affrontare il nemico in campo aperto. A quel punto riemerse la scarsa compattezza della brigata: “Gli uomini, che già da vari giorni erano stanchissimi, davano segni di malcontento e lo stesso gruppo di Montebello prese la decisione arbitraria di ritornare alle vecchie basi”. Anche le altre formazioni finirono con il reclamare la propria autonomia, che il comando dovette concedere, autorizzando quella di Cairocchi a tornare a Pietralunga e gli altri partigiani a riposizionarsi verso Morena: “Il comando” – scrisse nella sua relazione Taba – “sostò una giornata a Pietralunga per sistemare nel paese incarichi politici […] poi ci incamminammo verso il gruppo Morena, che doveva operare su Gubbio”.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.