I processi allo squadrismo

Nella primavera del 1922 il Fascio di Città di Castello tornò a mobilitare le sue squadre d’azione. Alcuni atti di violenza, come il ferimento da parte di Enrico Minciotti di un giovane socialista a Coldipozzo all’inizio dell’anno, avevano avuto un carattere episodico. In aprile invece i fascisti temettero un risveglio delle opposizioni, istigate da qualche “fuoriuscito”. Incombeva la ricorrenza del Primo Maggio, pregna di significati simbolici, e si emanarono disposizioni per impedire “ad ogni costo” pubbliche riunioni, cortei e comizi. Non si attribuì significato politico alla generalizzata astensione dal lavoro da parte della popolazione: ormai il Primo Maggio era stato riconosciuto festa civile.

Proprio in quel periodo cominciarono a svolgersi a Perugia i processi per gli eventi del 1921. Uno di essi, detto “il processone”, vedeva imputati 36 squadristi tifernati e umbertidesi. Avrebbero dovuto testimoniare a favore dell’accusa 63 persone. “Polliceverso” ammonì: “È nostro preciso dovere dare un amichevole avvertimento: noi non ci assumiamo nessuna responsabilità se i colpiti da queste false testimonianze reagissero fascisticamente”.

In effetti il timore di rappresaglie indusse sovente le vittime a evitare la querela e i testimoni o a restare in silenzio o a ritrattare precedenti accuse. Pertanto, vuoi per l’efficacia delle intimidazioni, vuoi per il benevolo atteggiamento dei magistrati nei confronti dei fascisti, i processi si conclusero con molte assoluzioni per insufficienza di prove o con pene lievissime. Gli imputati per le morti di Giuseppe Baldacci, la notte di Pasqua, e del colono di Rovigliano andarono assolti. Il diciannovenne Enrico Minciotti, imputato in cinque distinti fatti di violenza, ricevette solo una condanna a un anno e sette mesi di reclusione, esclusi i be­nefici di legge per la giovane età. Di lì a un paio di anni il facinoroso squadrista avrebbe macchiato di sangue lo stesso Fascio tifernate. Emblematica del clima dell’epoca la motivazione con la quale un giudice minimizzò un atto intimidatorio contro un antifascista perpetrato durante le elezioni da Giuseppe Gentili, che nel 1922 subì ben quattro processi: “[…] a chiare note si evince che il fatto fu determinato da movente politico e mirava, comunque, ad un fine nazionale; tanto più che [la parte lesa] apparteneva al numero di coloro che tendevano al sovvertimento dell’ordine pubblico e della nazione”…

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