Avviso pubblicitario di Ferdinando Di Colo.
Ricevuta rilasciata da Francesco di Colo.

I fratelli Di Colo

Di marmisti ve n’erano stati pochi a Città di Castello. Notizie molto scarne si hanno di Nicola Spallacci, che fu attivo a metà dell’Ottocento. Collaborò anche con Francesco Monticelli, autore del monumento sepolcrale a mons. Giovanni Muzi. Poi si distinsero i fratelli pisani Ferdinando e Francesco Di Colo. Li troviamo in città nel 1876, a lavorare nella cappella della Madonna della Pace nel Duomo inferiore. Per un compenso di L. 1.600 costruirono e misero in opera l’altare, facendo venire da Pisa il marmo occorrente. I committenti tifernati rimasero evidentemente impressionati dalla perizia dei Di Colo. Tre anni dopo la Curia affidò loro l’esecuzione in Cattedrale del pavimento di marmo della tribuna e “dell’impiantito del Cappellone”. La spesa per la costruzione e la messa in opera del pavimento fu valutata in L. 1.300, dell'”impiantito” in L. 1.150. Francesco Di Colo volle “mostrare l’onestà della somma voluta”; si obbligò quindi “di stare al giudizio di un perito dell’arte, scelto dal Committente […], se da questo il suo lavoro fosse stimato meno, e di non esigere mai più del convenuto”.
I Di Colo si resero conto che la città abbisognava della loro professionalità e vi si insediarono stabilmente. Avevano bottega, con un “deposito di marmi lavorati e greggi”, in via San Florido; pubblicizzavano la produzione di “monumenti, lapidi, caminetti” e di ogni altro manufatto in marmo. Alla morte di Francesco, nel 1880, continuò l’impresa Ferdinando. Quando venne meno, nel 1897 nella nativa Pisa, lasciò in eredità ai figli ciò anche che restava nel magazzino tifernate: “[…] mq. 140 di marmo consistenti in diversi rottami; due caminetti incompleti […]; due monumentini, uno con tronco di colonna e l’altro con croce in base […]; vari pezzi lavorati, cioè: un pezzo per caminetto, e per altri lavori; e due piani da comò e da comodini non ultimati; un piccolo soffietto a mantice; un martello, due mazzuoli e una trentina di scalpelli”.

Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note