Avviso pubblicitario e carta intestata di Gustavo Leoni.

Gustavo Leoni

Quando i Di Colo vennero chiamati in città per eseguire l’altare della Madonna della Pace, gli amministratori ecclesiastici affidarono allo scalpellino Gustavo Leoni il lastrico in pietra della Cappella nel Duomo inferiore. Leoni allora non aveva che 19 anni. La sua famiglia, originaria di Sansepolcro, s’era stabilita in città per esercitare il commercio: il padre Vincenzo aveva nell’odierno corso Cavour un negozio di drogheria e coloniali.
Leoni avrebbe acquisito un vasto prestigio come scalpellino e marmista. Ciò nondimeno attraversò momenti di serie difficoltà finanziarie. Le sue “ristrettezze economiche”, infatti, lo costrinsero per anni a ricorrere a prestiti privati e finì così con l’accumulare il cospicuo debito di L. 1.000 con il perito agrimensore Annibale Bajardi Cerboni. Non riuscendo a rimetterlo, nel 1897 dovette cedere al creditore la proprietà di tutto quanto esisteva nella sua bottega. Bajardi Cerboni lo autorizzò comunque a mantenere l’uso di materiali e attrezzi; in caso di vendita di pietre e marmi lavorati, Leoni avrebbe dovuto versargli il ricavato, trattenendo solo il corrispettivo per la mano d’opera.
Leoni trovò problemi anche a sistemare la sua impresa in una sede adeguata. Nel 1886 aveva un “cantiere presso l’ex convento di San Filippo”. Il Comune gli chiese di sgomberare, senza accogliere la sua proposta di trasferirsi presso l’area del “giuoco del pallone” – l’attuale giardino di piazza Garibaldi. L’anno dopo gli fu concesso “in via puramente precaria ed in forma revocabile ad ogni occasione […] un tratto della strada di circonvallazione interna dietro la palazzina Vitelli”. Leoni evidentemente non riuscì a risolvere la cosa in modo definitivo. Nel 1913 avrebbe dovuto costruire un suo cantiere in un terreno di Franchetti fuori porta Prato, confinante con il piazzale del mercato, l’argine del Tevere e altre proprietà del barone. Stipulò il contratto, ma non è certo che la cosa sia andata in porto. Infatti nel 1924 Leoni lavorava sullo sterrato di fronte al torrione Cecchini, presso porta Sant’Egidio; il Municipio gli intimò di togliere il pietrame e di trasferirsi nel pomerio San Bartolomeo. Leoni ebbe una bottega anche in via San Florido.
Artigiano assai noto e stimato, Leoni prese parte alla vita pubblica tifernate. Fu direttore della fanfara della Società di Mutuo Soccorso dei Reduci, animatore del gioco del pallone e valido esponente del tiro a segno. Nel 1903 divenne assessore nell’amministrazione socialista di Vito Vincenti. Fece parte della principale cooperativa edile locale e più volte la rappresentò per l’assunzione di commesse di lavoro. Per il Comune la sua bottega riparò lastricati, fornì ghiaia e pietrisco per la viabilità e produsse orinatoi, lastroni, “forazze” e chiusini per le strade, architravi, soglie, davanzali e lavagne per le scuole. Per committenti privati eseguì cappelle gentilizie, monumenti funebri e onorari, caminetti, lapidi e targhe in marmo.
Leoni rimase a lungo il più autorevole scalpellino tifernate e non esitò a mettersi a capo dei colleghi capimastri. Nel 1920, quando la Lega degli Scalpellini pretese l’esclusiva dei lavori municipali, egli prese carta e penna e scrisse al sindaco: “[…] i capi bottega sono continuamente tassati e tartassati da tasse, metrica, posteggi, esercizio, fuocatico e tassa di ricchezza mobile, e quindi non possono essere messi da una parte, e nella peggiore delle ipotesi i lavori dovrebbero dividersi”.

Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note