Documenti relativi ai fabbri Gaspare Bianchi, Giuseppe Bianchi e Agostino Billi.

I fabbri alla metà dell’‘800

A metà dell’Ottocento si contavano in città poco meno di una ventina di fabbri ferrai. A parte Luigi Leomazzi, Francesco Pennacchi e Antonio Moretti, gli altri conducevano una vita stentata. Questi “artisti” – riconoscevano le autorità municipali – “ritraggono appena una giornaliera mercede”, guadagnando il minimo ne­cessario “per alimentare se stessi, e la propria famiglia”. Non pagavano imposte, perché “giornalieri”, i fabbri e ottonai Lorenzo, Valeriano e GioBatta Beni, Giovanni Ruffini (“gottoso e miserabile”), Giuseppe e Sebastiano Vallini (“in pessima condizione” e con bottega al di fuori delle mura), il fabbro di Rignaldello Ventura Cesaroni e Tommaso Mastriforti.
Mastriforti fu comunque artigiano di un certo spessore ed ebbe un rapporto professionale molto intenso con il Municipio nei primi anni ’50, tanto da fungere da “capo mastro ferraro” comunale. Sono documentati suoi lavori allo “Scurtico” – denominazione popolare del mattatoio –, nei palazzi del Comune e Apostolico, nella caserma dei gendarmi pontifici, nei locali del liceo, al ponte del Prato, bisognoso di urgenti restauri, e alle porte urbane, dove dovet­te impiegare “molte libre di ferro per suo con­to”; inoltre sistemò “gli Offici dei Percettori dei dazi di consumazione”, da poco istituiti alle porte della città, collocandovi stadere e bilance, riparò la porta “dell’Officio di Po­sta” e costruì dei cassoni con le rispettive serrature. Fu proprio la presenza della folta guarnigione austria­ca in città a garantirgli altre cospicue commes­se. Nel 1850 il Comune lo retribuì per il “collocamento di diverse stufe nella caserma di Sant’Antonio” e per altri lavori alla “caserma aggiunta degli Offici Vecchi” e ai corpi di guardia austriaci; in quel­lo stesso anno, insieme al falegname Antonio Cardacchi e al pittore Bellucci, riparò i danni arrecati dagli ufficiali della guarnigione straniera nella casa del marchese Filippo Bufalini.
Nel 1851 si censivano diversi altri fabbri. Florido Timotei non doveva certo versare in cattive acque; tra il 1823 e il 1830 aveva abbastanza risorse finanziarie da poter accordare diversi prestiti ad agricoltori: uno di essi era un “cambio fruttifero” al tasso annuale dell’8%. Nel 1851, poco prima che morisse, il conte Pierleoni lo chiamò per le sue carrozze, affidandogli dei “lavori ai legni” e la riparazione della “martinicca del volantino”. Di Olinto Micciarelli si ha invece traccia fino ai primi anni ’60; ebbe commissioni dal Comune per le scuole e per l’ex convento di Sant’Antonio. Nel 1854 eseguì opere da fabbro nella costruzione della strada di San Secondo insieme al collega Francesco Milanesi, “patriota” e carbonaro che nel 1860 capeggiò la milizia ar­mata preposta all’ordine pubblico in attesa dell’arrivo dei carabinieri piemontesi. Di Milane­si si scrisse che “come operaio era ricercatissimo per l’accuratezza dei suoi lavori: i pugna­li da lui forgiati e temperati potevano trapassare una moneta d’argento da cinque lire”.
Di un altro artigiano, Serafino Polpettini, le autorità magistrali dovettero occuparsi non per commesse di lavoro, bensì per le proteste sollevate da una sua tettoia tra gli abitanti del po­merio San Florido, dove aveva bottega. A cau­sa di un manufatto talmente “rozzo ed infine mostruoso” – si legge nella petizione – ai vicini “gli viene tolta la maggior parte della lu­ce, e ne ricevono per esso molestia ed incomodo, giacché il fumo che sorte dalla sua officina, sortendo con impeto dal medesimo, va ad ingombrare la maggior parte delle camere ove essi abitano”. La magistratura tifernate ri­ten­ne fondata la protesta.
Di altri fabbri minori non restano che mo­deste testimonianze.
Nella campagna tifernate si contavano un­dici fabbri ferrai. A leggere gli stessi documenti ufficiali, i fabbri rurali stavano ancor peggio di quelli di città: “Per lo più sono ad­detti alle faccende rusticali, mancando alli me­desimi il lavoro […] e sono il più delle volte sprovvisti di ferro, e di carbone”.
Tale contesto di generalizzata povertà e di difficili condizioni di lavoro nell’intero territorio comunale fa quindi suonare quanto meno re­toriche le parole con cui don Enrico Giovagno­li, in un’epoca in cui si auspicava il rilancio dell’artigianato tradizionale, rievocava le antiche botteghe: “Quanto batter di ferri e so­nare di in­cudini in quelle albe lontane, in cui alle prime luci del giorno le vie si animavano di canti e di suoni: nella officina oscura tra uno sprizzar di fuochi il ferro rude si piegava docile alla volontà del mastro che ilare e gaio accompagnava col suo canto il ritmo cadenzato del maglio”.