Sequenza della distruzione della stazione ferroviaria (foto Bundesarchiv).
Il ponte sul Tevere fatto saltare dai tedeschi.
Uno dei 52 ponti distrutti nel Tifernate.
Il pretore Celso Ragnoni.
Attestato rilasciato dopo la guerra ai benemeriti che difesero la città durante il passaggio del fronte.
Un elenco dei componenti della Guardia Civica.

Città di Castello: distruzioni, saccheggi e sopravvivenza nella città assediata

Mentre il cerchio si stringeva su Città di Castello, la popolazione era per lo più sfollata nelle campagne: migliaia di persone che l’ordine di evacuazione forzata emesso dal capitano Müller il 19 giugno aveva spinto o dove il fronte bellico stava passando, o dove sarebbe comunque passato.

[…]

La città era dunque pressoché deserta, senza acqua né luce, con gli stabilimenti industriali paralizzati. Intanto procedeva la sistematica opera distruttrice di sparuti nuclei di guastatori tedeschi, con il compito di lasciare terra bruciata dietro a sé prima di abbandonare definitivamente la zona. I loro comandanti, alloggiati nel palazzo Torrioli di “piazza di sotto” e nelle ville situate in posizione strategica – da villa de Cesare sul colle di Belvedere a villa Montesca sul versante occidentale della valle –, coordinavano le estreme difese della linea che faceva perno su Città di Castello. Anche i proprietari delle ville ebbero a lamentare gravi spoliazioni ad opera dei tedeschi.

Un osservatore attento e pacato come l’avvocato Giulio Pierangeli ha lasciato una lucida testimonianza di quei momenti. Riguardo alle distruzioni che la città stava subendo, scrisse il 20 giugno 1944: “L’esercito tedesco si è comportato come il nemico più irreconciliabile, andando al di là di ogni esigenza bellica: ha distrutto gli impianti dell’acquedotto; ha reso inutilizzabili la Ferrovia dell’Appennino Centrale e la sede della Centrale Umbra; ha posto a sacco l’Ospedale, il Brefotrofio, le Farmacie, lo Stabilimento della Fattoria Tabacchi, tutti i negozii cittadini, le cantine, molte case private; […] ha requisito e razziato oltre la metà del bestiame esistente nelle campagne; non ha risparmiato né feroci rappresaglie né cocenti umiliazioni”. Pierangeli provava un particolare turbamento per l’incomprensibile accanimento contro quella Fattoria Autonoma Consorziale Tabacchi di cui era legale e consulente: “Mentre scrivo i ventimila quintali di tabacco imbottato, che erano il frutto del lavoro di millecinquecento famiglie coloniche durante due anni e di settecento operai addetti alla cernita e all’imbottamento, vanno in fumo, creando una rovina irreparabile, che in nulla giova ai tedeschi, in nulla danneggia gli inglesi e causa una rovina gravissima per l’economia locale”. E non era finita lì: nei giorni successivi sarebbero stati ridotti in macerie i ponti, la stazione ferroviaria e la sua officina.

Altra ferita nel corpo vivo della città era il saccheggio avviato dai tedeschi subito dopo lo sfollamento della popolazione, del quale si rese complice pure gente del posto, soprattutto rurale. La descrizione più impressionante di quanto avvenne l’ha lasciata Luigi Pillitu: “[…] diedero subito l’assalto alle gioiellerie, ai bar, ai negozi di commestibili, ecc. Gruppi di soldati tedeschi, armati di piccone o scure, grimaldelli o palanchini percorrevano le vie della città infrangendo tutte le serrande chiuse o le porte di qualsiasi fondo e asportando ogni cosa che fosse loro utile. Poi venne il turno delle case private; costoro penetravano nelle abitazioni private sfondando o addirittura demolendo ogni ostacolo e creando nelle stanze quei disastri che tutti hanno conosciuto, per prendere oro, argento, apparecchi radio, macchine fotografiche o da cucire, lenzuola o materazzi, asciugamani, vestiti, scarpe, borsette. […] Fu una razzia organizzata in modo diabolico e che di giorno si estese in modo violentissimo alle automobili, motociclette, biciclette, ecc., mentre giungevano notizie dalla campagna, dove avveniva altrettanto, per le case e per le strade, e dove i soldati tedeschi si erano insediati a bivaccare asportando bestie da lavoro e mangiando vitelli, suini, oche, e ogni provvista famigliare con ogni prepotenza adatta a raggiungere il loro scopo. […] Con la stessa violenza con la quale strappavano gli uomini alle loro famiglie e li costringevano a tappare le buche delle bombe, o a scavare trincee, e a portare il rancio alle prime linee, spesso, dopo essersi insediati in una casa, costringevano i componenti la famiglia a lavare la biancheria e i piatti e fare i più umili servizi, cacciandoli anche da casa per impossessarsi dei loro letti e delle comodità della casa per sé e per i loro cavalli o muli”.

Mentre il saccheggio era ancora in corso, Pierangeli rifletteva: “L’episodio del saccheggio cui i tedeschi si sono dati stimolando le donne locali ad associarsi a loro e ad estenderlo dà luogo a uno sperpero economico gravissimo perché i vantaggi dei saccheggiatori sono minimi in confronto ai danni dei saccheggiati, e soprattutto è demoralizzante. Quante donne, che hanno trepidato per le loro galline e per le loro uova, trovano ora perfettamente legittimo andare a saccheggiare, e se la pigliano anzi con i saccheggiati che ‘nascondevano’ tessuti, vestiti ecc. La libertà di saccheggio appaga gli istinti peggiori del popolino, e suscita un senso di repulsione solo nelle persone civili”.

 

La guardia civica e l’ospedale del seminario

Contro le ruberie si schierarono alcuni cittadini, autorizzati dai tedeschi a restare nel centro abitato per far fronte a certi loro bisogni. Il 22 giugno costituirono una squadra di vigilanza, poi chiamata Guardia Civica, che riuscì a porre freno per lo meno alle depredazioni degli sciacalli locali. Nel promuoverla, così come nel frenare gli istinti demolitori germanici, si distinse il pretore Celso Ragnoni, al quale il podestà Orazio Puletti aveva consegnato l’amministrazione municipale prima di fuggire verso il nord con le autorità fasciste più in vista. Ragnoni poté contare sull’energica collaborazione del comandante dei vigili del fuoco Corso Corsi, di alcuni pompieri e di Luigi Pillitu. In tutto furono una quindicina i volontari che, anche con l’ufficiosa autorizzazione del comando germanico, limitarono i danni del saccheggio. La Guardia Civica aveva sede nella caserma dei pompieri di via Guelfucci. Proprio su quella strada il 13 luglio cadde una granata che ferì mortalmente lo studente sedicenne Amedeo Pedoni, rimasto coraggiosamente in città per collaborare, anche come interprete – conosceva un po’ il tedesco – nei rapporti con gli occupanti.

Pedoni morì, a poche ore dal ferimento, nell’ospedale di emergenza allestito nei locali del seminario vescovile dopo che i tedeschi avevano portato via tutta l’attrezzatura del nosocomio di Città di Castello. Vi si prodigarono, improvvisandosi infermieri, il rettore del seminario, don Beniamino Schivo e cinque suore dell’ordine delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore. Solo dopo diversi giorni andò a dare loro una mano un giovane medico, Corrado Pierucci. L’ospedaletto accolse subito i malati che non poterono essere sfollati fuori città; poi giunsero vittime civili delle bombe e delle granate; quindi malati di tifo, che bisognò isolare nei vicini locali della scuola vescovile, e partorienti. I quattro o cinque bambini che vi nacquero accesero una luce di speranza nella cupa atmosfera di sofferenza e di morte che aleggiava: furono venti i ricoverati deceduti al seminario; sette di essi trovarono provvisoria sepoltura a ridosso delle mura urbiche, fuori porta Sant’Andrea. Una pagina del diario scritto da Schivo in quei giorni fa rivivere situazioni angosciose: “Ecco a notte tarda giungere ancora un carretto con una povera donna spasimante. Essa ha ambedue le mani troncate dalle schegge. Le suore sono prese da un momento di smarrimento. La debolezza femminile non regge da sola a tante impressioni. Poche parole di incitamento bastano però per rimetterle al loro posto di lavoro. Ma questa povera donna ha perduto troppo sangue. Riceve tutti i sacramenti. Muore nella notte”.

Quando considerarono ormai definitivamente persa Città di Castello, le ultime retrovie germaniche completarono quindi l’opera di distruzione per creare ulteriori difficoltà agli attaccanti. Oltre ad abbattere il ponte sul Tevere, minarono l’antica Porta Santa Maria e alcune case a ridosso di Porta San Florido per occludere gli ingressi meridionali della cinta muraria. Inoltre, quando lo squadrone C del 3° Hussars e i genieri discesero dalle colline orientali costeggiando il cimitero, trovarono la città cosparsa di mine e di trappole esplosive. Altri crateri provocati dalle mine tedesche bloccavano il passaggio lungo la circonvallazione e sulla strada nazionale, a sud di Rignaldello.

Censimento dei danni bellici

Dopo il passaggio del fronte, il Comune quantificò i danni al patrimonio abitativo. Complessivamente, calcolando i vani, ne risultavano distrutti 585, gravemente danneggiati 750, lievemente danneggiati 5.400. I ponti distrutti dai tedeschi erano 51: 7 sulla strada statale Tiberina 3 Bis, 10 sulle strade provinciali, 27 su strade comunali, 7 su strade vicinali. Subì gravissimi danni anche l’acquedotto.

Impianti produttivi distrutti: Tipografia “Scipione Lapi”, Officina ferroviaria, Officina Vincenti, Officina meccanica SAFIMA, magazzino di Rignaldello della Fattoria Autonoma Tabacchi.

 

 

Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.