Con queste parole, mentre il fronte stava investendo la valle, il tifernate Giulio Pierangeli commentò in una lettera alla figlia la sistematica opera di distruzione di infrastrutture operata dai tedeschi: “Mi sembra chiara la tattica tedesca; ritirare il grosso delle truppe che cerca di portare via più che può: bestiame, biciclette, macchinari, merci di valore: rimangono indietro gruppi di disperati (eroi e delinquenti) che con il terrore e con il lasciare la libertà di saccheggio si impadroniscono delle città, e in pochi oppongono una difesa estrema ritardatrice, e fanno poi saltare i ponti, rendendo lentissima l’avanzata nemica”.
Il comandante della X Armata germanica impartì precise disposizioni in tal senso proprio quando il fronte bellico stava per investire l’Alta Valle del Tevere: “Nel corso degli ulteriori movimenti di sganciamento devono raggiungere il massimo del possibile le distruzioni di tutte le strade, i ponti e gli impianti che possano essere utilizzati militarmente dal nemico. Si deve riuscire a creare […] una zona di distruzioni che non permetta al nemico di passare tanto presto all’offensiva. […] Tempo ed esplosivo ci sono in quantità sufficienti”.
Le demolizioni avrebbero creato non pochi problemi nella valle ai carri armati britannici. Ulteriore tempo gli Alleati erano destinati a perderlo per bonificare strade e luoghi di transito dalle mine.
La popolazione locale fu a stretto contatto con le truppe di retrovia germaniche preposte all’opera di demolizione dei ponti e di posizionamento delle mine e allo sfollamento coatto di quanti vivevano nelle zone di interesse militare. Una convivenza segnata purtroppo da numerosi fatti di sangue di cui rimasero vittime civili inermi e da continue razzie che, se talvolta potevano essere giustificate dall’esigenza di alimentazione delle truppe, troppo spesso non ebbero alcuna motivazione militare. Gli altotiberini percepirono il vandalismo tedesco non solo come una spoliazione dei propri beni, ma anche come un’umiliazione, inferta per manifestare sentimenti di disprezzo e di vendetta verso il popolo italiano.
La macchina bellica tedesca incuteva timore; nel contempo destava ammirazione. Giulio Pierangeli annotò il 12 luglio 1944, quando gli anglo-indiani avevano già liberato Canoscio e la valle del Nestoro: “L’esercito tedesco è ancora formidabile: non solo deve essere diretto bene, ma è compatto, disciplinato, deciso a vendere cara la sua pelle. Questa ritirata è un capolavoro: con forze esigue i tedeschi riescono a evitare una rapida avanzata dei loro nemici. […] Quale è il segreto di questa compattezza tedesca? Vi influiscono molte cose: il largo trattamento del soldato che, salvo il pane ha un trattamento di prim’ordine: il fatto che gli si permette il saccheggio per migliorare ancora il suo tenore di vita: il fatto che lo si fa comandare ai civili. […] Ti dicono che sono stanchi, che Cassino è stato spaventoso: ma manca ogni segno di sgretolamento morale”. Quindi una considerazione che, sulla base di quanto esposto, può apparire ingenerosa verso gli Alleati: “La lentezza inglese è esasperante: sono da ieri a un km da casa nostra: non hanno nessuno che li contrasti seriamente e sono passate dodici ore senza che abbiano fatto un passo avanti”.
Altra faccia della selvaggia ferocia del conflitto furono contemporaneamente il saccheggio su vasta scala di cui si resero responsabili le truppe germaniche nella loro ritirata. Il fenomeno assunse aspetti talmente eclatanti, anche per la sostanziale tolleranza di molti ufficiali, che l’alto comando della Wehrmacht si sentì in dovere di intervenire. Il 30 giugno Albert Kesselring comunicò al 51° corpo genieri: “Sono venuto a conoscenza del fatto che singoli soldati si comportano come banditi nei confronti di incolpevoli contadini e cittadini italiani e che sotto minaccia delle armi li derubano di oggetti di ogni tipo. Questi uomini non hanno diritto di definirsi soldati tedeschi e verranno severamente puniti. Che tutti siano a conoscenza di questo!”. Ma quanto sarebbe successo nell’Alta Valle del Tevere nel luglio 1944 dimostra che troppi ufficiali tedeschi continuarono a lasciare mano libera alla loro truppa. Così eccidi e saccheggi perdurarono, spesso tra di essi tristemente associati.
Per il testo integrale con le note e le referenze iconografiche, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.