Calzolai tifernati al lavoro all’aperto.
Gita di calzolai al passo del Furlo.
La bottega del ciabattino.

Calzolai e ciabattini

A corollario delle botteghe principali, per quanto minuscole, finivano con l’emergere per tradizione e consistenza in un ramo artigianale così frammentato, si irradiava nel tessuto urbano e nelle campagne la folta comunità di calzolai e ciabattini. Di quanti esercitassero il mestiere in città all’inizio del secolo porta testimonianza un episodio emblematico. Quando, nel 1906 il Comune dispose che gli artigiani non potevano più lavorare fuori delle botteghe, ben 95 calzolai inviarono una petizione di protesta: ciò che le autorità municipali consideravano un “abuso deplorevole” rappresentava per loro l’unico modo, nella buona stagione, di non restare rintanati in ambienti asfittici e oscuri.
Se i ciabattini si limitavano a lavori di riparazione, un buon calzolaio, almeno fino all’epoca della seconda guerra mondiale, doveva saper fabbricare a mano scarpe. E non solo per le particolari esigenze dei clienti; certi tipi di calzature, specie se soggette a costante e rapida usura per le condizioni di lavoro, erano più affidabili ed economiche se fatte su misura da un artigiano di fiducia.
Così come fabbri e falegnami, i calzolai si fondevano con il quartiere che li ospitava. Alla Mattonata, il continuo canticchiare di “Giuanèla” e “Gisto” – Giovanni Magi ed Egisto Matassi – divenne uno dei suoni abituali del rione. Nei fondi di San Giacomo si indaffaravano Settimio Ghigi, detto Pietro e soprannominato “Safàva”, Adelmo Sgaravizzi e lo zoccolaio Ascani (“Scotàcia”). Inoltre balzava di certo agli occhi la peculiare convivenza professionale di Gino Egidio Panfili e Amedeo Martinelli (“Tamburo”). Non erano soci e ciascuno teneva propri clienti e proprio materiale; nemmeno si assomigliavano per carattere. Eppure lavoravano insieme, in perfetta sintonia, seduti allo stesso tavolinetto. “Tamburo” aveva imparato il mestiere nel laboratorio di un altro tifernate durante un periodo di emigrazione a Grenoble; poi s’era perfezionato come “capobanchetto” da Bistoni. Al Prato spiccava la figura di Silvio Polpettini (“Sor Florindo”). Bravo calzolaio, amava girare elegantissimo al termine del lavoro. Aveva un suo fascino, al quale soccombette la proprietaria dell’osteria più in voga del quartiere. Polpettini, che era stato emigrante come altri suoi colleghi, tra cui Valentino Giandominici e il citato Martinelli, aveva il laboratorio nel pomerio. Lì vicino, in via della Rotonda, aprì la sua prima bottega Macario Tanzi. Fece a lungo l’ambulante, così come il marchigiano Adolfo Barelli e Ventura Carletti, erede di una tradizione famigliare di calzolai che risale quanto meno ai primi dell’Ottocento2. Infine, una bandiera del forte solidarismo che legò i calzolai fu Giuseppe Baldicchi, a lungo punto di riferimento dell’associazionismo sindacale e mutualistico della categoria.
Un altro artigiano di valore, Leone Iacobelli, si dedicò con perizia alla fabbricazione di speciali calzature ortopediche. Alla Mostra dell’Artigianato del 1937 le sue calzature destarono “sorpresa e ammirazione”. […]
I censimenti degli artigiani compilati dal Municipio tra il 1937 e il 1940 calcolavano in circa 39 i calzolai operanti nella città e in 33 quelli delle frazioni; 15 di essi cessarono l’attività in quel periodo5.
Nel 1959, infine, il numero di calzolai e ciabattini s’era ridotto a 23 entro le mura urbane, cinque nella periferia e cinque nelle frazioni.

Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note