Dalle elezioni del 1913 alla Grande Guerra Venanzio Gabriotti continuò a lavorare a Roma, estraniandosi dalla vita pubblica tifernate e dalle contese politiche che mantenevano spessa la barriera di incomunicabilità tra gli schieramenti. Si viveva ancora in un clima di forte tensione, con incidenti rivelatori di una persistente eccitazione degli animi.
Nella tarda serata del 26 febbraio 1914, mentre tornava in treno da Gubbio, Carlo Liviero fu atteso alla stazione di Umbertide da una folla ostile di circa duemila persone. Volarono fischi e insulti e i manifestanti più esagitati si aggrapparono ai finestrini dei vagoni per aggredire il vescovo. Solo la pronta partenza del convoglio evitò drammatiche conseguenze.
Intanto si acuiva la frattura tra socialisti e radicali. Era alle porte una nuova scadenza elettorale, per il rinnovo del consiglio comunale. La pessimistica valutazione della coscienza di classe dei lavoratori indusse i socialisti a schierarsi soli contro tutti. Repubblicani e radicali snobbarono l’impegno elettorale. Moderati e conservatori confidavano dunque in una facile riconquista del comune. In effetti il 26 giugno le urne sancirono la netta vittoria dei “costituzionali”. Divenne sindaco il proprietario terriero Urbano Tommasini.
Mentre si costituiva la nuova amministrazione municipale, l’Europa stava inesorabilmente scivolando verso la guerra.
Gabriotti avrebbe potuto evitare la guerra, perché nel 1904 lo avevano riconosciuto inabile al servizio militare. Ma un uomo di principio come lui, convinto delle ragioni dell’intervento, non riteneva giusto impugnare quel certificato per restare “imboscato” nella burocrazia romana. Aveva dibattuto a lungo con Ugo Patrizi la questione dell’entrata in guerra. I due si frequentavano spesso; li legava un’amicizia sincera, resa più preziosa da una stima reciproca che li portava a confrontarsi con serena vivacità. Patrizi gli aveva comunicato le sue perplessità. Temeva in particolare “che la preparazione diplomatica e militare (dell’Italia) non fosse completa da permettere in quel momento una decisione immediata” e che si dovessero pertanto “tentare tutte le vie prima di arrischiarsi ad un passo così importante”. Gabriotti, invece, aveva sempre nutrito la convinzione dell'”ineluttabilità” della guerra e della necessità di intervenirvi “senza tanto discutere”. Coerentemente, il 12 ottobre 1915, si arruolò volontario e fu incorporato nel III reggimento di artiglieria da fortezza.
Alla fine di ottobre l’artigliere raggiunse il fronte in Val d’Assa, assegnato alla 66a compagnia della divisione “Asiago”.
Alcune sue lettere, pubblicate ne “Il Dovere”, descrivono mirabilmente la vita di trincea, la routine spezzata dall’improvviso e drammatico sopraggiungere della battaglia, la burbera allegria di chi vuol reprimere la nostalgia di casa, l’assorbimento totale nell’impegno bellico, la concitata attesa di una lettera o di una cartolina.
Il 27 gennaio 1916 fu finalmente nominato sottotenente di fanteria. Assegnato al 51° reggimento “Cacciatori delle Alpi”, con sede a Perugia, ebbe l’opportunità di entrare nella compagnia che da tempo stazionava a Città di Castello. Vi rimase dal febbraio al maggio del 1916.
Il ritorno in città gli permise di riallacciare i contatti con gli amici di un tempo. Le comuni convinzioni interventiste rinsaldarono il rapporto con don Enrico Giovagnoli. Però si rammaricò delle accuse a Ugo Patrizi di non sostenere con convinzione lo sforzo bellico. Gabriotti difese il deputato radicale, riconoscendo l’assoluta buona fede di un patriottismo non accecato dalla retorica nazionalista.
L’estratto è una breve sintesi del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).