Nastri delle bandiere di due Società di Mutuo Soccorso tifernati.
Parole che pronunciò il fabbro e patriota Francesco Milanesi in occasione del suo 79° compleanno.
Pagina dell'elenco dei volontari del 1848-1849.

Volontari dopo l’Unità: gli artigiani

Gli artigiani tornarono alle professioni che, come soleva allora, avevano abbracciato da giovanissimi. Le imprese garibaldine del sarto Augusto Gabriotti (1841-1906) avrebbero alimentato l’amor patrio del figlio Venanzio, super decorato della Grande Guerra e martire della Resistenza contro il nazi-fascismo. Il variegato e brulicante ambiente artigianale tifernate, con così tanti reduci dalle campagne risorgimentali, rimase saldamente ancorato agli ideali per i quali aveva combattuto. Eppure questi lavoratori non godettero di alcun privilegio per il contributo offerto all’Unità italiana. Parecchi vissero, e morirono, poveri. Come il fabbro Luigi Gabriotti (1826-1892): le cronache ce lo descrivono “pur troppo intristito dalla miseria, alla quale non poté sottrarsi”. Quando chiese una pensione, ebbe il sostegno anche del sindaco Gnoni: “Se vi è un uomo che per bontà d’animo, onesta povertà, servigi resi alla Patria e sofferenze patite meriti una qualche ricompensa, è certo il Gabriotti […]”. Non ci fu niente da fare: non aveva tutti i requisiti richiesti.
Emblematica la storia di un altro fabbro, Francesco Milanesi (1809-1889): dovette battere il ferro fino a 76 anni e quando chiese l’utilizzo di una incudine di proprietà comunale – aveva già quasi 70 anni – gli fecero firmare un contratto che lo impegnava a restituirla dello stesso peso, risarcendo altrimenti il Municipio per il suo deterioramento. Quando chiese una pensione, ormai troppo vecchio e malato per guadagnarsi da vivere in bottega, gli risposero che la legge 4 dicembre 1879 aveva “per iscopo unicamente di venire in aiuto di coloro che o per ferite o prigionia o per esilio si resero poi inabili al lavoro, o furono impediti di continuare nelle loro professioni”. Vane furono le pressioni in suo favore di Filottete Corbucci e di Luigi Marcozzi, già esule romano a Città di Castello e diventato importante funzionario nella Capitale. Milanesi riuscì a ricevere il magro sussidio straordinario di 50 lire, e solo per le insistenze dell’influente deputato monarchico tifernate Leopoldo Franchetti. In quel 1888, festeggiato dagli amici per i suoi 79 anni, volle dire qualcosa, che appuntò in un foglietto con grafia incerta. Si riesce a leggere: “mi trovo onorato con tanta affezione che una quantità d’amici contro ogni mio merito – non trovo [le parole] di ringraziamento […] non [siete] amici ma veri fratelli di alto principio democratico – un saluto di quore e un bacio fraterno”. Morì un anno dopo.
Eppure Milanesi era una figura quasi mitica a Città di Castello: nel 1878 la Società dei Volontari Reduci delle Patrie Battaglie lo aveva acclamato portabandiera, incarico allora considerato una alta “onorificenza”. Di questa associazione fu presidente dal 1881 per molti anni un altro garibaldino, Luigi Soleri (ebanista, 1836-1911). Originario di Sansepolcro, ma ormai trapiantato stabilmente a Città di Castello, ebbe un ruolo attivo nel Patto di Fratellanza tra le società di mutuo soccorso, nella Società Filodrammatica Tifernate, nel Circolo Anticlericale Giordano Bruno e nella Società del Carnevale; inoltre contribuì alla fondazione della Società di Pubblica Assistenza “Croce Bianca” e si distinse nel primo nucleo di pompieri. Anche lui si ritrovò nella vecchiaia – si legge in una petizione a suo favore – “in condizioni di salute gravissime che gli tolgono modo di vivere”.
Tra i pochissimi che ricevettero dei benefici per il valore dimostrato nelle guerre risorgimentali si annovera Giuseppe Polenzani (1837-1884). Era cappellaio quando partì per la seconda guerra d’indipendenza e fu seriamente ferito. Tuttavia volle combattere di nuovo nel 1866 e 1867. La sua salute si deteriorò tanto che il Comune lo assunse come piantone per le guardie municipali.
Uno degli eroi del Risorgimento tifernate, Crescenziano (Fulgenzio) Fabrizi, ebbe difficoltà a ricevere la medaglia al valore guadagnatasi per l’atto di coraggio a Ponte Milvio il 3 giugno 1849. Dopo la caduta della Repubblica, rimase a Roma – un territorio “estero” fino al 1870 – e non stette dietro alle pratiche formali necessarie per la consegna dell’onorificenza. Nel 1878 chiedeva ancora che gli venisse data la “sua” medaglia.
 
L’articolo è tratto dal volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010). Alla ricerca storica sui volontari ha collaborato Marcello Pellegrini.