Ristrutturazione e ammodernamento delle case coloniche della Fattoria Franchetti.

Un lascito che fece discutere

Una prima verifica delle condizioni dei 48 poderi lasciati da Franchetti ai coloni la effettuò nel 1924 Giulio Pierangeli, avvocato e intellettuale tifernate di prestigio. Consapevole del pregiudizio, già diffuso tra i proprietari terrieri umbri, che i contadini non avessero fatto buon uso dei poderi ereditati, Pierangeli scrisse che “l’affermata decadenza agricola esiste[va] in una misura molto ristretta”. Già evidente, invece, era il frazionamento dei poderi: “Questa scissione delle famiglie rurali, che è fenomeno generale, si verifica con una frequenza molto maggiore fra i coloni-eredi. Su 48 famiglie, 13 nello spazio di appena sette anni si sono divise”.
Valutazioni sconsolate e pessimistiche espresse, una decina di anni dopo, Maghinardo Marchetti, figlio di Giuseppe, il fidato fattore di Leopoldo Franchetti. Affermò che le condizioni dei poderi destavano “una impressione assai penosa”. Le proprietà si erano ulteriormente frazionate: “Dei 48 poderi, più di una ventina si sono spezzettati, dando origine a piccole proprietà di estensione inferiore alla minima necessaria per una piccola impresa coltivatrice stabile”. Inoltre la maggior parte dei contadini erano “indebitati fino ai capelli” sia per la rivalutazione della lira, sia “per la loro assoluta incapacità direttiva”, “[…] anche perché la proprietà, piovuta dal cielo senza alcuna fatica e senza alcun sacrificio da parte loro, ha creato in molti l’illusione che non sia più necessario affaticarsi come prima”. Secondo Marchetti, l’insuccesso dell’“esperimento” di Franchetti era dunque dovuto al fatto che i contadini mancavano ancora di un’adeguata preparazione per assumersi la responsabilità delle gestione diretta dei poderi.
Ma fu nel secondo dopoguerra che si effettuò un primo studio scientifico sulle trasformazioni subite dall’ex Fattoria Franchetti nel trentennio 1918-1948. Nell’illustrare i risultati dell’indagine, Giacomo Giunti volle smentire le considerazioni negative più volte espresse fino ad allora, spesso con atteggiamento “aprioristico e preconcetto”. Non si poteva disconoscere l’accentuata frammentazione della proprietà, con 93 ditte proprietarie scaturite dagli originari 48 poderi. Però si consideravano confortanti altri dati: il capitale fondiario era stato “in complesso ben conservato”; lo stato dei fabbricati appariva “soddisfacente”; lo stato della manutenzione dei terreni e delle piantagioni legnose veniva giudicato “discreto”, così come il reddito ricavato dalla famiglia coltivatrice; nella meccanizzazione del lavoro agricolo si era verificato un “progresso apprezzabile”; il pur evidente “peggioramento qualitativo” del bestiame non era generalizzato.
Giorgi commentò che non bisognava attribuire un “potere taumaturgico” al lascito di Franchetti: “Le accuse che si muovono [ai contadini eredi] sono, infatti, le stesse che si muovono in generale al sistema della piccola proprietà coltivatrice come tale. E, infatti, è stato tante volte ripetuto come la proprietà contadina annoveri, fra i suoi difetti, la tendenza ad un ulteriore frazionamento fondiario e, peggio ancora, alla frammentazione […]”. Quanto al problema della gestione dei fondi, “una direzione illuminata” avrebbe sicuramente con più facilità potuto “mantenere un alto livello tecnico e magari ulteriormente accrescerlo”: ma “tale direzione è più frequente nelle tenute organiche com’erano quelle del barone Franchetti […] che in piccole proprietà contadine”. […]
Estratto, senza note, del saggio Le vicende politiche di Leopoldo Franchetti a Città di Castello, di Alvaro Tacchini, in Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, a cura di A. Tacchini e P. Pezzino, Petruzzi Editore, 2002.