Il capitano Greenwood
Annotazioni manoscritte di Greenwood durante la missione.

Un commando britannico dietro le linee tedesche L’avventura di Ashley Martin Greenwood

Poco prima dell’alba del 14 giugno 1944, in una notte rischiarata dalla luna, un aereo britannico decollato da Foggia lanciò sull’Alta Valle del Tevere quattro pattuglie di paracadutisti del Long Range Desert Group. Il loro obbiettivo: “Acquisire quante più informazioni possibile sulle strade, sui movimenti di truppe nemiche e sulle concentrazioni e tipi di veicoli nell’area Umbertide-Città di Castello e segnalarle al più presto”. Al comando della pattuglia M1 era il capitano Ashley Martin Greenwood. Con lui sei uomini, armati di carabine, di un mitra Thompson e di due rivoltelle ed equipaggiati di zaini con razioni giornaliere per una settimana, sacchi a pelo e una ricetrasmittente.

Mentre scendeva verso il suolo, alle ore 3.50, Greenwood aveva poco più di 60 secondi per svolgere alcune operazioni: “Innanzitutto, dovevo estrarre gli occhiali da una custodia e indossarli; quindi guardarmi intorno per individuare gli altri paracaduti (ero stato lanciato per primo). Ne riuscii a vedere a una certa distanza solo uno o due. Poi dovevo fissare a una corda la mia carabina e lasciarla sospesa sotto di me, perché bisogna avere le mani libere quando si atterra. Mentre mi avvicinavo a terra, mi accorsi che stavo atterrando su un paese. Difatti atterrai sul tetto di un edificio, che si rivelò essere una chiesetta”. Era la chiesa di Lama (San Giustino), un luogo ben diverso da quello programmato. Per questo aspetto, la missione fu un disastro (“nessuno di noi fu paracadutato vicino al luogo giusto”) e i paracadutisti britannici si trovarono intrappolati in una zona piena di soldati tedeschi.

Greenwood fu fortunato a scendere su quel tetto. Ebbe modo di raccogliere e nascondere il paracadute, mentre un uomo del posto, incredulo dinanzi alla scena, lo metteva in allerta sulla presenza dei tedeschi. Il capitano si rese conto di trovarsi in un bell’impiccio: “Per radunare i miei uomini avevo un rustico campanaccio da mucca, ma […] non c’era alcuna speranza di radunare la mia pattuglia nel mezzo di un paese occupato dai tedeschi e in effetti non potei stabilire il contatto con loro”. Greenwood dovette quindi pensare innanzitutto a salvare se stesso dalla cattura. Trovò aperta la finestrella di un solaio che conduceva al campanile e da lì riuscì a scendere al pianterreno. Esplorò velocemente, e infruttuosamente, i dintorni per vedere se c’era traccia dei compagni, poi si portò verso le vicine colline, in direzione di Montione. Alle 5 del mattino trovò un rifugio sicuro nel bosco e vi rimase l’intera giornata.

Della sua pattuglia, solo lui e il soldato George Ford sfuggirono ai tedeschi, che sguinzagliarono cani per rintracciare i nemici paracadutati. Ford sarebbe rimasto nascosto nei boschi altotiberini fino all’arrivo degli Alleati, a luglio. Anche le altre tre pattuglie furono lanciate in posti sbagliati. I tedeschi catturarono tutti i componenti di due di esse, tranne Simon Fleming, che morì per la mancata apertura del paracadute. Due dei britannici sarebbero poi riusciti a scappare. La quarta pattuglia, comandata da John Bramley, riuscì invece a oltrepassare le linee nemiche e a mettersi in salvo.

Alle ore 22 del 14 giugno, Greenwood si mise in cammino. Una famiglia contadina, benché terrorizzata dal via vai di tedeschi di quel giorno, gli dette cibo e acqua. Camminando di notte e nascondendosi di giorno, l’ufficiale britannico il 15 giugno rimase a oriente del Tevere. Il 16 attraversò il fiume e risalì la valle del torrente Erchi. Poi si portò a Marcignano, sulla valle del torrente Aggia, e s’arrampicò attraverso il bosco verso il successivo crinale.

Alle ore 1 del 17 giugno, appena raggiunto Poggio Meone, l’imprevisto. Greenwood si sentì intimare il “chi va là”. Temendo si trattasse di fascisti o tedeschi, cercò di nascondersi, ma lo raggiunse di striscio un colpo di rivoltella. Per evitare altri guai, uscì allo scoperto a mani alte. Si trovò davanti un giovane partigiano di Morra, Domenico Laurenzi. Avrebbe poi raccontato: “Fui così catturato da partigiani italiani (della cui esistenza ero totalmente inconsapevole) e trattato bruscamente finché non comunicai la mia identità. Successivamente mi accolsero festosamente”. Infatti passarono diverse ore prima che tra i partigiani della banda di Morra, che aveva il suo covo a Meone, se ne trovasse uno che masticasse un po’ d’inglese e chiarisse l’equivoco.

Greenwood rimase sei giorni con la trentina di partigiani della banda comandata da Angelo Ferri. Per tre volte, di notte, percorse circa 6 miglia per raggiungere Volterrano – il luogo stabilito prima della partenza della missione per ricongiungersi con i suoi commilitoni – ma non incontrò nessuno. In quel periodo trovò i partigiani in piena attività. Nella notte dal 18 al 19 giugno attaccarono un camion di tedeschi, asserendo di averne uccisi 8 e feriti 4. Il 21 catturarono un austriaco. L’ufficiale britannico assistette all’interrogatorio: “Ci mettemmo tutti a sedere bevendo vino rosso. Il prigioniero fu trattato come un membro della compagnia e gli fu offerto da bere come agli altri; al che presto si sciolse, raccontando le sue esperienze sul fronte russo e liberandosi della sua stanchezza della guerra. Il vocio e il bere stavano diventando ancora più animati quando me ne andai, all’una di notte”.

Greenwood andò a riposarsi perché aveva già deciso di partire il giorno successivo, per tentare la difficile avventura di attraversare le linee nemiche e riportare agli Alleati la gran mole di informazioni raccolte dai partigiani e attraverso la sua diretta osservazione. Iniziò così un lungo trasferimento verso il Lago Trasimeno, durante il quale l’ufficiale fu scortato per due notti da partigiani che se lo passarono da un gruppo all’altro. Dalla terza notte dovette cavarsela da solo. Anche se a fatica e con grandi rischi, riuscì nell’intento.

Il rapporto di Greenwood si soffermò sulle condizioni della viabilità. Affermò che le strade altotiberine erano assai migliori di quanto indicassero le mappe: “Molte contrassegnate come secondarie e piste sono adatte a veicoli militari nei due sensi di marcia. Inoltre molte piste non segnalate o indicate come mulattiere sono adatte a veicoli militari in un senso di marcia”. I ponti principali erano sorvegliati da sentinelle tedesche e minati per farli saltare in aria. Per ostacolare la viabilità agli Alleati, a Città di Castello risultavano già minati il mulino della Canonica e molte case a Rignaldello. Sulla pianura, il Tevere e i torrenti potevano essere guadati, ma l’intensa pioggia di quei giorni li aveva ingrossati. Invece lungo le valli ai lati del Tevere, i torrenti talvolta scavavano gole profonde e non si passavano facilmente, anche perché le pareti delle colline si presentavano a volte scoscese. Greenwood annotò pure quelli che gli apparivano i migliori punti di osservazione per l’artiglieria (le colline di Montecastelli, Canoscio, Montesca e Belvedere) e constatò come i movimenti nemici lungo le arterie principali fossero modesti di giorno e intensi di notte, tanto da giustificare raid aerei solo all’imbrunire e all’alba.

Il contatto con gli altotiberini indusse Greenwood a scrivere: “La popolazione della campagna e gli abitanti dei villaggi sono compattamente anti-tedeschi. Hanno sofferto gravemente per mano dei tedeschi, che li derubano ovunque. Si mostrano tutti gentili e disponibili verso i britannici; mentre alcuni sono terrorizzati dai tedeschi, ne ce sono molti altri che mostrano considerevole coraggio”. Toni quasi sprezzanti, invece, per i fascisti: “Sono una nullità nelle zone dove esistono. Nell’area di Città di Castello sono scappati quando i britannici erano a 50 miglia. Dove sono attivi i partigiani, i fascisti, che li temono, si chiudono nei loro presidi e si danno da fare nascostamente come informatori. Non si avventurano nei territori controllati dai partigiani”.

Quanto alla banda di Morra e al movimento partigiano della zona, Greenwood espresse valutazioni positive e rispettose: “Erano combattivi, ma male armati, non avendo ricevuto rifornimenti dagli alleati. […] I partigiani nell’area ad ovest della strada San Giustino-Umbertide non avevano mai ricevuto istruzioni dai britannici. […] I comandanti sono di buona caratura: maestri, professori, professionisti o ex ufficiali italiani. Esiste un qualche collegamento tra gruppi vicini, ma raramente vi sono azioni coordinate, principalmente per la mancanza di mezzi di intercomunicazione. Armi, munizioni, scarpe e calze sono le principali esigenze dei partigiani. Per la mia esperienza, non è necessario cibo. Questi partigiani operano dall’8 settembre 1943. Hanno cominciato contro i fascisti e continuano contro i tedeschi. Danno poco credito ai nuovi arrivati, che sperano di salvare la pelle saltando sul carro appena prima dell’arrivo degli alleati. La maggior parte di essi sono desiderosi di continuare a combattere dopo l’arrivo degli Alleati”.

Ashley Martin Greenwood (1912-2003) fece studi giuridici ed ebbe una precoce passione per l’alpinismo. Con i commando del Long Range Desert Group, prima del fronte italiano fu impegnato in operazioni nei Paesi che si affacciano sul mare Egeo; successivamente combatté in Montenegro. Dopo la guerra entrò nel Colonial Office britannico: fu magistrato in Uganda e procuratore generale nelle isole Fiji e a Gibilterra. Ebbe poi altri incarichi internazionali negli USA e a Hong Kong. Fu insignito dell’Order of the British Empire. Come alpinista, si vantò di aver scalato montagne in 103 Paesi diversi.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.