Gruppo di musicanti tifernati.
Al Cinema Vittoria
Osteria del centro urbano
Il lattaio
Lo scopino

Soprannomi tra ‘800 e primo ‘900

Il testo che segue è solo un estratto del capitolo sui soprannomi del mio libro “Onomastica tifernate tra Ottocento e Novecento

 

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Un tempo nemmeno tanto lontano uno “strillone” girava in città per invitare all’acquisto di alcuni beni, per vendere i giornali o per pubblicizzare spettacoli cinematografici. Lo chiamavano el Brutto: era fratello del falegname Vàsinton (cioè Washington). Gli anziani lo ricordavano bene: “Gìa a strillè quando vendéa l pèsce (‘è fresco, dòne, è fresco!’); gìa a strillè pe la carne (‘dòne, sotto la volta del municipio ògi’c’ho la carne de seconda’); e gìa a strillè per mandè la gente al cinema (‘ògi a le quatro al cinema Iris…’)”. A giudicare dal soprannome, un bell’uomo questo strillone non doveva esserlo. Un altro strillone di giornali lo chiamavano Pocamenda. Vendeva giornali pure il Muto: all’epoca si affibbiavano soprannomi senza tanti riguardi e a lui lo bollarono così perché aveva difficoltà espressive (“balbettèa, biascichèa, nnu spedìa bene”). Potenza dei soprannomi: sua madre era la Magnacristiani e sua moglie la Sètecentesimi.

Tra gli ambulanti si annoveravano la Sùccina, che vendeva frutta e mele cotte con il carretto (poi emigrò in Francia con il marito barbiere Maccarello), l’altro fruttivendolo Ringhèli, Mezalìra, con il suo banchetto di porchetta i giorni di mercato, un certo Scarpa Liscia  e Sghega, “che venìa a vènde budèli e sangue su n carrettino, su catinèle de còcio sporche”. Quando, per il mercato, la città si affollava, vi trovavano un habitat propizio i mendicanti Biridano e Lavarino, l’ubriacone Marangone e Palilùme, che aveva avuto la poliomielite e parlava con difficoltà: gli chiedevano quanto costasse una certa cosa e lui rispondeva “nna lila”, invece di “una lira”.

Al Tevere avevano fama di grandi pescatori Cumino e Bagélla; vi facevano le lavandaie la Chiappina, la Mattìa e la Trancièle; uno dei vagliatori di breccia sul greto del fiume lo conoscevano come Nibolìno; un abile nuotatore era Seghètto. Lavoravano nella rinomata calzoleria Niccolini di piazza Lillèra, marito della Ciampelóna, e Napolino, padre del Cinese. Aveva reputazione di brava cucitrice la Marietta de Scotàcia; se chiedevi maggiori lumi su chi fosse, ti avrebbero risposto “la màma del Fiol Prodigo”.

Un reduce garibaldino di via del Popolo lo avevano soprannominato Uno-uno perché – ma sarà vero? – durante il servizio militare non era mai riuscito a scandire il passo di marcia “un-due / un-due”. Un noto colonnello, che si dava un po’ le arie, lo chiamavano Sembolino; un bracciante della Mattonata sempre con la fame arretrata era Sembolone: se il nomignolo ha a che fare con il dialetto, si consideri che le espressioni “non fare una ‘sembola’” e “non capire una ‘sembola’” significano non combinare o non capire proprio niente.

Raccontano inoltre che il noto massone Padreterno, giunto alla fine dell’esistenza terrena, non abbia disdegnato di avere i conforti religiosi dall’altrettanto famoso parroco di San Michele Arcangelo, Tabachìno. E narrano che un certo Olinto si chiamasse Pochissimo perché così rispondeva quando gli offrivano del vino; e che avessero soprannominato un tipografo Zi Bomba perché talvolta le sparava proprio grosse. Zi Bomba faceva parte della Filodrammatica Tifernate, come gli altri tipografi Pimperi e Melina e l’apprezzata attrice-cantante Puntelìna. Come mai la chiamavano così? Perché era la figlia di Puntelìno

Ecco un succinto campionario di soprannomi in voga a Città di Castello prima della seconda guerra mondiale. Allora si basava spesso su di essi l’identificazione di una persona profondamente immersa nella vita sociale. Una consuetudine che, con gli anni del boom economico e con le epocali trasformazioni degli ultimi decenni, è via via venuta meno.

 

Un passo indietro

 

Negli anni 1848-1849 alcuni degli addetti ai lavori edili per le autorità ecclesiastiche compaiono nella documentazione amministrativa con il semplice nome di persona o con il soprannome. Evidentemente ciò bastava per identificarli senza ambiguità. Il nome di alcuni è scritto in forma dialettale: Bepino, Giuachino, Domennico, Nofrio. Di altri si ha il diminutivo: Santino, Mariannino, Cencino. Di altri ancora una variante del cognome: Radichio e Bogliaro, forse da Radicchi e Bogliari. Ci sono infine muratori e manovali indicati solo con il soprannome: Moretto, Cagnetta, Spatolino, Bianchino e Angelo detto il Demonio.

La stessa documentazione d’archivio ci fa conoscere, prima dell’Unità italiana, il muratore Zampettino, gli scalpellini Bigiarola e Gnagnone, i barrocciai Guercino e la Mea, l’oste Luigi il Guercio e il fornaciaio il Bigghia. Di alcuni falegnami si trova talvolta scritto il soprannome a fianco del nome e cognome, forse perché era soprattutto il soprannome a identificarli: Topino (Antonio Cardacchi), Trentuno (Florido Boriosi), Lumechiaro (Francesco Montani) e Puntechia­ro (Giuseppe Montani). Altri artigiani del tempo di cui si conosce anche il soprannome sono – non si tratta che di una selezione – il calzolaio Padregira (Luigi Rossi), l’armaiolo Brio (Luigi Boriosi), il falegname Stoppino (Luigi Grilli) e i fabbri Mastrino (Francesco Mammelli) e Moccolino (Giuseppe Leomazzi). Moccolino passò di padre in figlio: era così conosciuto anche Luigi Leomazzi, grande artista del ferro battuto. Possiamo inoltre identificare pienamente i macellai Bolgiólo (Angelo Belli) e Primavera (Florido Pitocchi), il fornaio Talacchio (Domenico Poderini), il cappellaro Tagliapiscia (GioBatta Moretti), gli osti Pìfari (Giuseppe Belli) e Scarfano (tal Pierucci) e i vetturali Birella (Antonio Fiorucci) e Canapino (Giuseppe Francioni). Non è rimasto invece che il soprannome del segantino Bacchiorri, del chiodaiolo Ingegneri, dello stagnino Gingillino e del falegname Cicinterna. Sono tutti nomignoli che troviamo scritti così nei vari documenti.

Restando all’epoca pontificia, la documentazione ci trasmette soprannomi di tifernati dei quali non si hanno altri elementi di identificazione (Mangiacani, Bragone, Fritto, il Chiurolico e il Fume) o dei quali, almeno per ora, non si conosce il mestiere: Bajochetto (Luigi Garbini), Balacco (Andrea Bellucci), Cicalino (Nazzareno Puletti) e Papa (Cristoforo Fucci).

Rari i soprannomi di donne legate al tessuto produttivo urbano, come la lavandaia Chierchina e la sarta la Rossa. Ben più numerosi invece, e assai intriganti, quelli di donne implicate in vicende giudiziarie, fatte conoscere da Giuliana Rosini nelle sue indagini sulla storia sociale della prima metà dell’Ottocento: la Bacchettina, la Budellona, la Fascina, la Gazza macellara, l’Imbroglina, la Liviera, la Moccolina, la Pelata, la Pisciola, la Toccia e la Scoppina.

[…]

Nei decenni che vanno dall’Unità d’Italia alla Grande Guerra offrono ulteriori spunti, insieme alla documentazione d’archivio, i periodici che sempre più frequentemente prendono a vivacizzare la vita politica e sociale di Città di Castello. Limitiamoci ancora al variegato mondo di artigiani e commercianti, figure pubbliche immerse con le loro botteghe nei vicoli e nelle strade più frequentate. Entrano in scena lo stagnino Aceto (Angelo Masci), il calzolaio Billo di Celle (Giacinto Ricciardi), i vetturali Fusicchio (Luigi Mei) e Radicchio (Giuseppe Chierici), il proprietario di caldaia a vapore Zampa d’agnello (Luigi Godioli), il mercante di bestiame Cencio del Grenca (Vincenzo Lepri), i sarti Conte (Roberto Gabriotti) e Sorbolone (Marcello Mariani), il fabbro Picciafoco (Angiolo Moretti) e il Fabbrino (Agostino Bartolucci), che però faceva il calzolaio. Un altro importante fabbro, Giuseppe Montani, era detto Palombone. Ebbe l’officina in via dei Lanari e ancor prima nel vicino pomerio San Bartolomeo, presso la Palazzina Vitelli. Il “Palombone” è diventato un toponimo per indicare quella zona urbana. Un anziano conoscitore di cose castellane molto tempo fa mi assicurò che fu il soprannome di Montani a denominare quel tratto delle “cerche”, cioè del pomerio, e non viceversa.

Merita di essere qui ricordato Fuoco eterno. Chiamavano così l’ebanista Luigi Soleri. Originario di Sansepolcro, fervido patriota e sergente garibaldino insieme ai volontari tifernati, venne a vivere a Città di Castello e divenne il carismatico punto di riferimento dell’ambiente laico e repubblicano. Il nomignolo di Fuoco eterno se l’era meritato per la passione ideale. Ma probabilmente qualche clericale il “fuoco eterno” glielo augurò quando lui volle alla morte un funerale laico, senza preti intorno. Allora il clima era questo.

Nel 1914 i sostenitori del deputato radicale Ugo Patrizi dettero vita a una manifestazione per le vie della città. Alla testa dei dimostranti c’erano tre popolani: Diocéco, il Napoletano e Nerone. Di quest’ultimo null’altro si sa. Il Napoletano era un commerciante ambulante (Giuseppe Esposito) di chiare origini partenopee. Quanto a Diocéco, si tratta forse di un soprannome di famiglia, perché alcuni anni dopo si chiamava così un giovanissimo che primeggiò in piazza Raffaello Sanzio in una gara di “piedipattini”, antenati degli attuali monopattini. Da un’altra cronaca si vengono a conoscere i soprannomi di due attivissimi socialisti di inizio secolo: Rosso del Biccio e Trivelìno, di Rignaldello.

Qua e là vengono alla luce altri personaggi all’epoca assai noti: i barrocciai Pelìccia e Polvano, la venditrice di castagne Sembulina, il fachino Ceciarino, i manovali Bindolo e Tegame, il pompiere Angiolbèlo e due tifernati che facevano discutere per la loro vita sessuale: la prostituta Fusicchia e l’omosessuale Sora Checca.

 

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Risalendo al periodo tra le due guerre mondiali e agli anni immediatamente successivi, lo scenario dei soprannomi tifernati si arricchisce notevolmente. La fonte principale diventano le testimonianze orali.  Per il resto del testo vi invito a leggere “Onomastica tifernate tra Ottocento e Novecento”.